L'America amara di Malle

L'America amara di Malie Incontro con il regista, a Roma per presentare il suo film «Alamo Bay» L'America amara di Malie Tra texani e profughi vietnamiti un violento conflitto etnico, commerciale e culturale ROMA — Alamo Bay è 11 nuovo film di Louis Malie. E' un posto che non esiste, 11 nome evoca una storica sconfitta americana, eroica e Insieme patetica: 'Ma in Texas tutto si chiama Alamo, i bar, le birre, i cappelli: è un suono che ha parte cosi grande nel folclore, nella mitologia texana-, dice Malie, francese che ha scelto l'America, clnquantatré anni, piccolo magro e chic, gran regista eclettico, grande Intelligenza Irrequieta. .Chiamare così una piccola città immaginaria, condensazione di tante piccole città e storie vere, è risultato naturale. Anche ironico: in America Alamo fa subito pensare a John Wayne, mentre se nel mio film un eroe esiste è il vietnamita-. Erano più di mezzo milione I vietnamiti che nel 1975, quando l'America abbandonò II Vietnam, si rifugiarono negli Stati Uniti: -Fuggirono dal loro Paese diventato comunista perché erano stati dalla parte degli americani, e quando arrivarono in America si trovarono in conflitto proprio con loro. E' una delle amare ironie della Storia-. Cominciò un'altra guerra. Centomila profughi vietnamiti si installarono In Texas, sul Golfo del Messico. Presero a fare 1 pescatori, a lavorare nell'industria ittica locale: con molto successo. I pescatori texani, già In crisi per la rarefazione del pesce e dei gamberi nelle baie della zona, per la caduta dei prezzi, per le rigide norme governative e la durezza delle banche, si sentirono minacciati dalla concorrenza dei vietnamiti, di quegli stranieri d'altra origine, d'altra cultura, di religione cattolica. La tensione esplose nell'estate del 1980, diventando un'aspra guerra razziale. Esasperato dalle persecuzioni e dalle prepotenze, un giovane vietnamita uccise un pescatore texano (e venne poi assolto in tribunale per legittima difesa). I texani dettero fuoco al pescherecci e alle case del vietnamiti, 11 aggre dlrono In continui incidenti. Il Ku Klux Klan prese la guida della lotta contro 1 «musi gialli: Quello scontro etnico-economlco, rivelatore di violenza, è protagonista di Alamo Boy, scritto da Alice Arlen (che insieme con Nora Ephron aveva già scritto •Silkwood» per Meryl Streep). Interpretato dal giovane vietnamita Ho Nguyen; da Ed Harris, l'attore americano dallo stile più contemporaneo (romantlc understatement, timidezza, energia, virilità, laconicità), adultero di provincia ne «Le stagioni del cuore», astronauta Olenti in «Uomini veri», giornalista corrotto In «A Flesh of Green., amico di Sam Shepard, di George Romero e di Jessica Lange, 11 massimo dell'eleganza; e da sua moglie, l'attrice Amy Madigan che in «Strade di fuoco» era la ragazza-guerriero detta Soldato. Interroghiamo 11 regista. Cinque anni dopo, come sono 1 rapporti tra americani e profughi vietnamiti? — La tensione è sempre lì, e i vietnamiti pure. Al momento dello scontro spesso sono partiti, ma poi sono tornati: è gente dura, determinata, con l'esperiema di trentanni di guerra. Si sono organizzati in comunità, mettono soldi da parte. Mandano i figli a scuola, e i ragazzi vietnamiti risultano più intelligenti e studiosi di altri, riescono meglio, sono molto dotati per la matematica e l'elettronica: diventeranno borghesi, mentre i figli dei pescatori americani rimarranno pescatori. Resteranno parte di quella frangia di americani che fanno mestieri arcaici, l'agricoltura, la pesca, la manovalanza nelle acciaierie, che non appartengono al inondo moderno: quasi una specie in via di estinzione, persone molto frustrate e quindi molto violente, che si sentono abbandonate e prive di futuro. Qual era per lei l'elemento di maggiore interesse in questa vicenda? La contraddizione storica, il paradosso politico, 1 destini individuali, la guerra tra poveri? — La voglia di capire. Ricordavo l'enorme emozione intorno al boat-people, accolto in America con 7iiolta generosità. Due o tre anni dopo, quegli stessi vietnamiti diventavano intrusi, invasori, nemici dei "poveri bianchi": ma a New York, nel Bronx, erano i giovani neri disoccupati ad aggredire i profughi cambogiani. Lo scontro era tra gruppi di diseredati. Ed era specialmente evidente nelle piccole città chiuse del Sud, dominate da una subcultura arcaica e insieme decadente, nutrite del melodramma patetico e delle sceneggiate drammatiche della musica country, abitate da gente dai comportamenti primari, infantili, quasi animali: collere furenti e pianto depresso, grande violenza e sentimentalismo, aggressione e debolezza, vulnerabilità. Nel film che ha girato negli Stati Uniti, la sua attenzione è andata sempre all'America non urbana, all'America provinciale e povera, alla faccia nascosta dell'America. Perché? — Non l'ho fatto apposta. Ho più curiosità e tenerezza per gli emarginati dal sogno americano: una simpatia da emigrante, credo. Sono interessato ai non integrati, a quelli che sono fuori della grande corrente: forse perché anche io ho problemi di integrazione. Vivo negli Stati Uniti da molto tempo, ho sposato un'americana come Candice Bergen, ma non mi sono mai sentito un futuro americano. Piuttosto, un estraneo per sempre. Lo stile di Alamo Bay non somiglia a quello del classico cinema americano di critica sociale? — Ho pensato molto, lavorando, a un cinema americano che ora s'è perduto e che io ho amato più di ogni altro: quello della grande tradizione di civile autocritica, di critica sociale, di revisione dei valori, di denuncia e coraggio. Ho pensalo a certi uxstern, anche a «Mezzogiorno di fuoco». In America amano poco vedersi raccontare dagli europei. Alamo Bay ha provocato critiche severe, polemiche, irritazione? — Irritazione. Lo spirito reaganiano non ama i ricordi della guerra del Vietnam; e la realtà delle piccole città dove il razzismo riaffiora come conseguenza di situazioni economiche disastrose sembra troppo fastidiosa. Lieti Tornabuoni Il regista I-ouis Malie durante le riprese del suo ultimo film «Alamo Day»