IL TEATRO COME STREGONERIA di Giorgio Pestelli

IL TEATRO COME STREGONERIA IL TEATRO COME STREGONERIA Uscite di sera, per un teatro 0 un film importante, era per 1 miei genitori un fatto raro, un evento preparato con cura e di cui dopo si sarebbe ànco-j ra parlato per qualche giorno. Da tali sortite noi ragazzi eravamo esclusi-, ma ci fu un'occasione che a mio padre sembrò cosi importante da vincete la disapprovazione dei nonni, con i quali tutti vivevamo, nemici implacabili di ogni abitudine scrotina: si trattava, niente meno, delMncllo del Nibelungo di Wagner diretto da Furtwacnglcr e trasmesso dalle stazioni della Rai, un atto per sera (si poteva, quindi, rincasare e andare a letto a un'ora possibile). Ma perché uscire proprio per qualcosa che si poreva sentire restandosene a casa? Perché, in omaggio alla mia petulante passione musicale, l'ascolto satemmo andati a farlo insieme con un amico di mio padre, l'avvocato Carlo Andrea Rossi, ferratissimo di cose musicali e che di Wagner conosceva (meraviglia) tutti i temi a menadito. Ad ascoltare con lui, c'eta molto da imparare. Era chiamato avvocato, ma non aedo abbia mai esercitato, così fragile e portato all'isolamento; una componente forense l'aveva tuttavia, era la voce, molto più forte rispetto alla petsona, la pronuncia chiara, lavorata, a volte baldanzosa, con una leggera erre aristocratica. Molti nell'ambiente musicale torinese se lo ricordano, ma l'hanno creduto morto da tanto tempo, mentre è mancato solo un paio di anni fa. Apparteneva a una specie ormai estinta, era un dotto: sapeva di rutto, di filosofìa, di religione, musica, lettere, perfino di scienze, e rutto con l'oggettività del manuale, del dizionario enciclopedico: i dati erano il suo regno, la foresta in cui si muoveva con sicurezza. A me aveva regalato un libro, //piccolo naturalista, e una sua collezione di minuscoli minerali lasciata a metà; quando morf mio padre? iftiiftwsfié angosciato il suo dolore per non avergli potuto-lasciare in eredità la sua macchina da scrivere; Il per lì mi sembrò poco per una amicizia plurien naie, ma in realtà in quella frase c'era tutto il candore, la piccola debolezza del suo ani mo di dotto. Come rutti i dotti non cessava mai di studiare; quando cominciai a frequentare l'Università di Torino, lo vedevo in prima fila alle lezioni di Filosofia morale, alle nove del mattino, nell'aula mal riscalda' ta di via Po, con un paltoncino nero attillato e bavero di astrakan; io mi tenevo un po' a distanza, con la naturale diffidenza che i giovani provano per gli amici dei genitori, ma una volta l'avevo sorpreso, curvo su un quaderno, a prendere appunti con una nitida scrittura. Viveva in solitudine monacale, pare si nutrisse come un asceta-, e proprio nella casa di quest'omino ci accingevamo ai prelibati ascolti wagneriani, al sontuoso banchetto della Tetralogia. L'oro del Reno ce l'eravamo perso (forse a ragion veduta: atto unico, ma lunghissimo, chi sa a che ora sarebbe finito); si cominciava dunque con il primo atto della Valchiria. Dal portone di via delle Rosine 12 ci si arrampicava per gradini insidiosi nell'incerta illuminazione; entrati nello studio, anche lì poca luce che veniva da una lampada con paralume verde, sistemata però in buona posizione vicino al mobile radio; intorno un mare di carte e libri, stipati in scaffali che sfumavano nella semioscurità verso il soffitto, non molta aria, un odore di carta porosa, di inchiostri. Era la prima volta che sentivo quell'opera incomparabile: a Torino, negli Anni Cinquanta, era comune che la prima conoscenza con un'opera teatrale avvenisse così, in forma economica, alla radio, con l'unico spettacolo dello spartito sulle ginocchia (Ricordi, «Edizione del popolo» per .canto c pianoforte). Sulla prima scintilla di note, seguita dal tremolo del re tenuto dagli archi, si alza una voce: «Tempesta; al basso senti i passi di Siegmund fuggiasco»; era Carlo Andrea Rossi che cominciava a commentare l'opera pagina per pagina, Alla mia saccenteria quell'intervento sembrò dapprima un'intrusione molesta; ma solo per pochi minuti, ci misi poco ad accorgermi che l'ascolto si faceva sempre più saporito e nutriente. Con abilità consumata, come l'avesse fatto cento volte, sapeva inserirsi nel fluire della musica senza coprirla o contrastarla: dove le frasi si distendevano erano più lunghe chiose (entra Siglinde: «Come si è potuto sostenere che in Wagner con ci sia melodia?!)», dove i temi incalzavano la sua voce si infilava tempestiva, anche con una sola parola i-tema di Donner», «velsunghi» «Hunding»; a volte riusciva persino a cantare il tema che stavamo per sentire, precedendo di un attimo Furtwaengler: «La spada.' ta-tàaa-ta»; la voce serafica poteva diventare veemente, con toni oratori, la erre vibrava in una scia sonora, «senti i corni», «attenzione/ passa in mi maggiore». Dove i toni raggiungevano 1 culmine della partecipazione era nell'episodio della notte primaverile, nell'irruzione del vento d'aprile nella capanna di Hunding, quando Siegmund e Siglinde si gettano uno nelle braccia dell'altra. Sembrava che l'aria tiepida e il chiarore del plenilunio fossero entrati anche lì dentro, in quella grotta di libri popolata di fantasmi- „„.-> ,,. Ripensandoci trentanni dopo, aedo, (ma come esserne; sicuri?) di poter ritrovare nei' commenti a quelle pagine un velo di emozione, un fremito di cui allora non potevo rendermi conto: si diceva non avesse mai trovato la donna della sua vita, conservandosi virtuoso dalla giovinezza alla senilità; che cosa doveva dirgli quella storia d'amore e d'incesto dove Impulso e Natura sono l'unica legge? Con gli occhi di Wagner guardava in una regione di fuoco, sconosciuta e forse bramata; sì, segnalava ancora al passaggio\\ tema di Freia, del Walhalla, e nei punti culminanti fustigava i negatori della melodia in Wagner; ma più per difesa, aggrappandosi a qualcosa di sicuro, che per necessità esegetica; chi sa quale tumulto si muoveva sotto, che cosa toccava e agitava quell'ondata di musica, quel Sì gridato alla vita nella sua interezza. Dopo quella prima, didascalica Tetralogia, sono totnato molte volte per altre «messe in scena» fra quelle pareti domestiche. Anche il Boris Io incontrai lì per la prima volta; la nostra guida traboccava di simpatia fraterna per Pimen, per la funzione e fin il gesto dello saivere, imitato dal tenue ondeggiare delle quartine. Simpatia più che giustificata: Pimen è il protettore degli in tellettuali da tavolino; gli altr operano nel vasto mondo, lui sta allo scrittoio, studia genealogie; e scopre le magagne, e confonde i politici e i potenti con quale solidale fierezza ne parlava l'avvocato Rossi, ancora scortandoci giù per le scale, per lui senza segreti, e aspettando con noi all'angolo di via Giolitti il tram n. 21 che non arrivava mai. L'alone del Boris lambiva la chiesia.di fronte, dove"'ircele1'! bra\a ' la méssi», in ' russo; alle undici di sera,'Torino èra deserta; le strade ad angolo retto erano quinte teatrali. Nessun vero teatro visto poi avrà per me la suggestione spettacolare di quegli inaoci; nessuna Valchiria, nessun Boris la verità di quegli ascolti; non sono più riuscito a concepire il teatro che così, come interiorità, fantasia, stregoneria. Giorgio Pestelli Richard Wagner in una caricatura francese dell'800

Persone citate: Carlo Andrea Rossi, Donner, Richard Wagner, Siegmund

Luoghi citati: Torino