Una gavetta d'amore

Una gavetta d'amore STORIE DI GUERRA CON MISTERO Una gavetta d'amore Ogni tanto la tetra ci restituisce un oggetto abbandonato dalle guerre: un pezzo d'arma o di buffetteria, una scheggia di granata, un coperchio di gavetta traforato meticolosamente con un chiodo per grattugiare il formaggio, reticolati, caricatori vuoti, pallette di piombo. I turisti che nella buona stagione vagano per le montagne raccolgono questi rottami per portarseli a casa come ricordo; forse finiranno sopra una scrivania o in un cassetto. Ma i più, temo, andranno a finire tra i rifiuti solidi urbani. Ho visto gente commuoversi davanti a un cucchiaio raccolto sul fondo di una trincea, a un pezzo di pipa trovato dove sorgeva un ricovero, o a una medaglietta che una talpa aveva riportato alla luce sul mucchietto di terra scavato dove c'era un cimitero. Questi oggetti che non fanno parte del corredo militate conservano la natura di chi li ha usati, prendono anima, tanto che quasi viene da colloquiare con essi. Un giorno d'estate di qualche anno fa accompagnai sull'Ortigara un nostro bravo attore dì teatro; rimase sconvolto nel vedere quel campo di battaglia che ancora conserva intatta l'orrida apparenza. Camminammo per delle ore tra le trincee e i sassi frantumati e avrebbe voluto raccogliere ogni cosa che non fosse pietra. Quando ritornammo, lui che di solito è così amichevole ed estroverso, non disse una parola e nemmeno volle bere un bicchiere di vino. Qualche giorno dopo volle ritornarci da solo e lo colse uno di quei violenti temporali estivi che a 2000 metri non possono essere piacevoli a tutti. Quando scese la notte non aveva ancora fatto ritorno in albergo e sua moglie e sua figlia vennero preoccupate a dirmelo. Andammo a cercarlo. Si era fermato come smagato sul varco della trincea da dove.nel '17 erano usciti per l'assalto i battaglioni degli alpini;' aveva in mano un cucchiaio arrugginito e una pallottola di mitragliatrice, cosi lo aveva sorpreso il temporale. Lui che era anche stato internato in Germania, mi confidò che quelle furono le ore più drammatiche della sua vita; ma non per il temporale, o non solo per questo: era per quel cucchiaio, per quella pallottola, per quel luogo. Anche quest'anno con pochi amici e i loro figli siamo ritornati da quelle parti; in un posto dove la battaglia era passata via veloce tra crepacci impervi di rocce e boschi antichi. Un luogo che da noi è ricordato perché nel giugno del '16 combatterono il battaglione Sette Comuni e gli alpini piemontesi del Val Cenischia. Avevano operato in quella zona per arginare prima e poi aggirare dall'alto la «spedizione punitiva» che i granatieri sul Cengio e i fanti della brigata Sassari sul Monte Fior avevano arrestato. Questa degli alpini fu un'azione rapida su un terreno impervissimo dove più che violenza di armi o strategia e tattica valevano le qualità individuali. Dentro un crepaccio vennero presi da una nostra pattuglia divasi prigionieri. Il giovane sottotenente che la comandava, per non diminuire la sua forza, fece tagliare bottoni e togliere le cinghie dei pantaloni, sfilare i lacci delle scarpe agli austriaci: in questa maniera non potevano correre e con le mani dovevano tenersi i pantaloni; a scortarli nelle retrovie fu sufficiente un solo alpino. Raccontavo agli amici questo episodio passando per stretti passaggi diventati cam minamenti, arrampicandoci per scalette di legno ancora di 3uel tempo, per spaccature ove resiste la neve malgrado la calura. Verso la cima, sotto una cengia, un ragazzo raccol se qualche cartuccia di Mann licher austriaco. Mi resi subito conto' cosa c'era ai piedi di quella roccia dove aescono le stelle alpine, pache tra i sassi e la poca erba affioravano le scarpe e lo dissi al padre del ragazzo. Gli dissi: «Sta meglio qui che nei brutti ossari». E con la voce della memoria e del cuore, senza che nessuno mi sentisse, cantai: «Se tu vens cà si (à creta I Li che lor ma àn sottrai I Ali un splaz plen di stetuti I Dal mio sane l'è stài bagnai...». Per più di una notte, ma anche ora, mi viene da pensare a quel caduto austrungarico sepolto sotto una cengia sopra una montagna. Forse l'avranno sepolto lì i nostri alpini dopo la battaglia, o i suoi compagni prima di ritirarsi. Ma da quale parte d'Europa era venuto? Di quale nazionalità uà? Che cosa aveva lasciato a casa in quell'estate del 1914? Chi l'aveva inutilmente aspettato? Me lo sentivo amico, come uno di famiglia e finché ne avrò la forza ogni anno andrò a portargli un saluto. Sono segnali che arrivano dal tempo; che riportano le vicende della storia, ma più ancora la vita della gente comune, e fanno sempre più amare e volae la pace. Uno di questi segnali mi è venuto da lontano, da molto lontano, e da una vicenda di guerra in cui anch'io come tanti altri fui coinvolto. Questo segno mi è arrivato da Sukhumi: sono cinque fotografie di una gavetta italiana che la madre di un amico georgiano ha dissepolta nel suo orto. Sukhumi è nella Transcaucasia, sul Mar Nao. Come sari andata a finire laggiù? Da documenti e da ricache non mi risulta che nostri soldati fatti prigionieri sul fronte russo siano arrivati fino in questa città della Georgia. Lì non c'erano campi di italiani, il più vicino aa a Novorossijsk, un porto sul Mar Nao lontano 500 chilometri da dove è stata rinvenuta questa gavetta. Un solitario aa arrivato fino laggiù o aa un evaso? o forse l'aveva portata fin là un soldato russo che l'aveva raccolta chissà dove? Ma pache, poi, sepolta nell'orto? La gavetta e il cucchiaio sono le ultime cose che un soldato abbandona: ho visto ' > buttare le armi, abbandonare zaini, maschere antigas, munizioni, elmetti ma mai e poi mai gavette. All'estremo si portava infilata nella cinghia dei pantaloni o delle giberne, e il cucchiaio nella tasca posteriore dei pantaloni con il manico infilato dentro l'asola per non perderlo o per non farselo rubare pache la concavità non può essere sfilata senza un particolare movimento. Quasi tutte le gavette durante le ore di noia o di malinconia venivano incise dai soldati con un coltello; anch'io l'avevo fatto e il mio motivo aa un paesaggio alpino che avevo nella memoria (la mia gavetta incisa finì fusa nella stufa di un lager). La fotografia della gavetta di Sukhumi con le sue incisioni ci racconta una storia e se non ha l'arte e la grazia di un vaso ellenico, ha però la forza del documento. Porta disegnato lo stemma del reparto: XI reggimento d'artiglieria. Questo reggimento aa stato assegnato al Corpo d'armata alpino ed aa in appoggio ai nostri reparti schierati sul Don. Dove ha il passante per legarla alla cinghia dello zaino è inciso: «A. 3713», forse questo è il numero di matricola del proprietario; sulla destra c'è un fascio littorio con le parole: «Duce a noi», sulla sinistra una bandiera con lo stemma sabaudo tra le parole «Patria Re». Da queste scritte suppongo che il proprietario aa una recluta pache un soldato anziano mai le avrebbe incise. Ma sotto il fascio littorio c'è un artigliere con una granata posata sull'avambraccio. Un gesto osceno? Ma anche i savienti al pezzo porgevano così le bombe. Sotto la bandiera, un cannone. A lato del fascio una donna discinta, al lato della bandiera una sentinella con la scritta: «Sentinella I dagli sguardi penetranti I all'erta I e guai a chi si fa avanti». . Ma è sul retro che l'autore 'ìta^saitioe inciso una storia ^a|nor<^-cornpleta: ci.- sonc. vólto di una ragazza con i capelli sciolti sul collo e le parole: «Dopo la I partenza I tua da I quel dì I la I gioia mia I finì» e il nome «Lina». Poi troviamo dei fiori e una colomba con una lettaa nel becco, il nome «Primo» e «Amor I non piangere I che un dì I ritornerò I e allora I per sempre I vicino a te I resterò»; due cuori trafìtti e gocciolanti e la figura di un giovane in cravatta. Una storia di cui non sappiamo la fine, che ci arriva da Sukhumi, Georgia, sul Mar Nao e che aa incominciata in Italia quarantatre anni fa. Mario Rigoni Sterri

Persone citate: Amor I, Fior, Mann, Mario Rigoni

Luoghi citati: Cengio, Europa, Georgia, Germania, Italia, Novorossijsk, Sassari