Arte in retromarcia?

Arte in retromarcia? DISPUTA SULLE AVANGUARDIE Arte in retromarcia? 11 mondo dell'arce contemporanea, di questi tempi, è a rumore; sembra che si sia interrotta una stagione dominata da un certo fronte ispirato a aiteri definibili come radicalprogressisti, intonati al concetto dell'avanguardia. Infatti uno dei punti basilari su cui si è retto, si può dire dagli Anni 50 fino a poco fa, un simile fronte, era che la ricerca artistica andasse sempre avanti, affrontando via via prove più ardue, superando limiti e barriere successive, riuscendo regolarmente a sconvolgete le fiducie residue che il vasto pubblico conservava in taluni caratteri convenzionali e risaputi. L'«andare sempre avanti», da circa un decennio, è stato sostituito da un «grande ritorno», per cui si sono viste riapparite la figurazione, e nei modi talora più corrivi, pseudo-accademici; la buona superficie di tela dipinta, regolarmente incorniciata; l'«aura» estetica più densa e untuosa. Prima ancota, pare essere caduta la fiducia nei «programmi», nelle tendenze, nelle poetiche, autorizzando così ogni artista a «rompere le righe» e ad affidarsi a un estro momentaneo. Congiuntamente, si è vista la rottuta di un certo cartello di critici che nei tempi passati etano stati abbastanza compatti e omogenei, pur al di la di inevitabili differenze di tono e di gusto. Così, Argan litiga con Calvesi, questi con Menna, Bonito Oliva con Celant, tanto pet menzionare qualche caso saliente. Diventa allora quasi inevitabile che una certa critica tradizionalista riprenda fiato, un po' come il «volgo disperso» di manzoniana memoria, quando ha sentore della rotta che sta travolgendo gli odiati Longobatdi. Tanto più che questa critica tradizionalista se ne sta abbarbicata su pagine e colonne di grande prestigio: pet fare qualche caso, Testori ha dalla sua il Corriere della Sera, Antonello Trombadori l'Europeo. E' pur giunto il tempo di qualche bilancio, si sta cercando cioè di citare la fila di un decennio di sperimentazione, si stendono elenchi di artisti validi o no, ponendo la fatidica domanda: quali sono i giovani che valgono e che probabilmente «resteranno»? Una vasta rassegna in quattro città emiliane, intitolata appunto agli «Anni Ottanta», ha stimolato questo inevitabile primo bilancio. Intanto, che cosa significa essere un critico tradizionalista, nel senso secondo cui ho usato quest'etichetta qualche riga sopra? Basterà capovolgere i presupposti attribuiti al ftonte avanguardista, ed eliminate quindi la fiducia nelle poetiche, nei programmi, a loro volta sintonizzati sul tempo, sul fiume del divenire. Il buon critico tradizionalista crede che esista solo la qualità individuale: la mano, l'occhio, magari il cuore; e che l'artista dotato di queste virtù possa fare quello che vuole, sfidare i tempi, le tecniche; anzi, ih genere costui non si farà problema per quanto riguarda i mezzi esterni, sceglierà quelli più risaputi e . classici; quindi, la figurazione, l'olio, la tela; tanto, basterà un cuore grande così, o una qualità maiuscola, per rinnovare come d'incanto le forme più logore e invecchiate. Insomma, il nostro tradizionalista è crociano, magari senza saperlo, crede che ci sia poesia, qui e ora, o no, e in barba a ogni possibile ricetta; ogni volta, si deve ricominciare daccapo nel giudizio, quello che si dà di un artista, non vale per un altro. Confessiamo, pure che il momento è confuso, e sembra dare qualche ragione a un simile modo di pensare. Non abbiamo infatti riconosciuto che l'attuale stagione è caratterizzata da un gigantesco «rompete le righe», da un «fate quello che volete», di cui i giovani approfittano ampiamente? Per esempio, la mostta «Anni Ottanta» ci presenta giovani che «citano», altri che si danno ad attività ludico-dccorativc, o astratto-informali, o figurativo-esprcssionistc: soluzioni che appunto solo una decina d'anni fa sembravano essere state scavalcate dalla storia, dal progresso rettilineo, e lasciate quindi solo agli attardati, ai reazionari. Eppure, le differenze tra i due fronti critici continuano a esserci, e delle più nette; se i tradizionalisti sono, all'inarca, crociani, consapevoli o no, gli altri, altrettanto inconsapevolmente, sono fenomenologi degli stili, seguaci cioè del grande storico dell'arte svizzero Heinrich Wòlfflin, che nei suoi testi classici (Rinascimento e tarocco, l concetti fondamentali della storia dell'arie) ci ha detto tante cose, su come si muove la ricerca nelle arti plastiche. Ora poi una piccola casa edittice di Venezia, la Cluva, ha avuto la bontà di darci anche la traduzione del suo primo libro, la Psicologìa dell'architettura, scritta come tesi di laurea circa un secolo fa. Questo autore ha una bellissima e intatta fiducia che gli avvenimenti estetici non siano mai casuali, ma che rispondano sempre a profonde necessità culturali, da cui risultano inevitabilmente trascinati tutti i migliori operatori di un determinato periodo. Insomma, crede profondamente nello Zeitgeist, per usare una parola magica della sua lingua. E ha già ampiamente previsto che il divenire storico degli stili non sia necessariamente rettilineo; anzi, ci sono gli esaurimenti, le fasi di stanca, da cui si esce «ritornando indietro». Per esempio, tutti forse sanno che il Wòlfflin è l'inventore della coppia categoriale chiuso-aperto: l'arte marcia da fasi di forme chiuse ad al- tte via via sempre più aperte, cioè dinamiche, impetuose! varie e accidentate. Ma dopo che l'aperto è stato sostituito dall'apertissimo, è lecito sperare nelFiper-apcrto? No, una generazione intelligente e avveduta comprende che bisogna cambiare gioco, e porre sul tappeto, di nuovo, la carta del chiuso. E' avvenuto nel tardo Settecento, quando i David, Fiissli, Blake ecc., contro l'eccesso di disinvoltura e di apettuta del barocchetto e del rococò (dei nipotini del Tiepolo), decisero, indipendentemente ma solidalmente, di recuperare l'antichità, o il romanico, o il manierismo. E succede da circa una decina d'anni: dopo il «troppo aperto» delle forme concettual-comportamcntiste, ambientali eccetera ecceteta, gli artisti più avveduti hanno deciso che era giunta l'ora di rilanciare vecchi gettoni ingialliti: il museo remoto e i suoi mostri sacri (Raffaello, Poussin, su su fino a De Chirico), oppure il museo recente dei vari «ismi», che pure apparivano già interamente spremuti e superati. Ma allora, i giovani citazionisti, o espressionisti, o ludico-decotativi su cui puntano i critici del fronte progressista e d'avaguardia, scelgono queste vie a ragion veduta, per sottile calcolo strategico, e non per fotza di natura, per libera creatività, in nome di una Poesia o di un Cuore senza tempo né spazio. Tanto è vero che nelle loro opere pseudoaccademiche disttibuiscono tracce ironiche, segni e ammicchi di distanza autocritica da quello che stanno facendo. Alla prima apparenza, un Salvo o un Carlo Maria Mariani (autorevoli rappresentanti dei citazionisti, dei neo-museali) potrebbero essere scambiati per un Tommasi Ferroni, o per qualche altro tardo-surrealista di sempre. Ma li divide un ideale «contatore dei giri», così come, in pista, riesce pur possibile comprendete chi ha doppiato 'un,, concorrente, ,c. dunque' possiede^n-glro^df' vantaggio, anche se all'apparenza marcia assieme a lui. Renato Badili

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