Ribaldi e cavalieri

Ribaldi e cavalieri MEDIOEVO TRA EUROPA E PIEMONTE Ribaldi e cavalieri ì.c frontiere separarlo popò li, lingue, culture, costumi, Stati, ma solo per le amministrazioni c gli atlanti geografid esse sono rappresentate da lince continue, nella storia c nella realtà i passaggi sono meno bruschi: non confini lineari, ma intere arce. Di cui abitualmente vengono proposte immagini non precisamente positive. Situare una regione alla frontiera comporta infatti un'idea di periferia, di doppia periferia anzi, rispetto ai centri al di qua e al di là del confine. In questi luoghi tutto assume una coloritura vaga, tutto giunge e accade in ritardo, tutto è pervaso e percoiso da influenze duplici e contraddittorie. Ne offre un buon esempio il Piemonte considerato come una terra lontana, almeno pei secoli, dal corso maestro della storia d'Italia, come una regione che, in questa vicenda, comincerà ad avere peso solo dai tempi di Emanuele Filiberto, dalla rifondanone di Torino come capitale di uno Stato moderno. Ma prima? Per la stoiia delle istituzioni, della cultura, della produzione artistica il Piemonte medievale è rimasto per molto tempo un'entità un po' mitica. Posto a cavallo tta ('rancia e Lombardia, tra la Valle del Po e quella del Rodano, controllato da svariati (e spesso singolari) principati territoriali, quelli dei marchesi di Monferrato o di Saluzzo, degli Acaia o dei Savoia, è stato piuttosto trascurato dagli storici che lo avvenivano come lontano, diverso, indefinibile. * * Non che siano mancati per il passato gli studiosi buoni, talora ottimi, i nomi di Gabotto, di Cipolla, di Cognasso stanno a provailo, pei citare i primi che vengono in mente: sono mancati, piuttosto, la definizione, la ricontestualizzazione, in una parola l'inserimento di quanto avveniva e si pl.oduicva jn Piemonte in un ambito e in una storia più vasti.- Che queste brume periterà che non scendano più a rendete incerte e difficilmente leggibili le forme e i contorni della storia di questa regione è uno dei tanti e grandi meriti di Giovanni Tabacco e della sua scuola. Due fatti sono venuti puntualmente a confermarlo: la pubblicazione di una raccolta di saggi clic un agguerrito gruppo di medicvisti della «scuola di Torino» ha dedicato al proprio maestro (Piemonte medievale. Forme dJ poteri e Mia società, ed. Einaudi) e il trentaquattresimo congiesso storico subalpino appena concluso e dedicato alle esperienze monastiche nella società medievale. «Dal-Piemonte all'Europa»; il titolo del congresso dichiarava subito la posta in gioco: si trattava di imprimere uno slittamento calcolato alla tradizionale immagine della regione nel Medioevo. La terra marginale di modesta importanza, la provincia sonnacchiosa si rivelava invece un crocevia, un luogo di incontro, di scambio, di confronto, di esperienze, una plaque-tournantc europea. Se ne sarà convinto chi al congresso abbia ascoltato quanto Tabacco ha detto degli straordinari personaggi che dal Piemonte si spingevano a Cluny, Fécamp, Digionc, Mont-Saint-Michel, di quel continuo scambio di esperienze, di quel ruolo europeo che le grandi abbazie piemontesi, da Fruttuaria a San Michele della Chiusa, svolsero al tempo della riforma monastica. * * O di quel muoversi titto sulle strade clip videro nel 1128 un monaco affrontare un viaggio di 3500 chilometri, di monastero in monasteto da Susa al Delfinato alla Provenza alla Castiglia, dalla Linguadoca alla Borgogna e di nuovo a Susa, per raccogliere in un rotolo il più gran numero di preghiere in suffragio del suo defunto abate. O ancora di quello spostarsi d'Oltralpe verso il Piemonte di religiosi illustri come i primi abati di San Michele della Chiusa o umili come quelle monache che traversarono i monti per venirsi a rinchiudere entro le mura del monastero cistercense di Santa Maria di Drionc, presso Val della Torre. La stessa apertura di orizzonte si avverte nelle pagine di Piemonti Medievali dove una scric di interventi illumina, per assaggi (C campionature, momenti, aspetti e forme delle istituzioni, della società e della cultura. Si trova qui un modo di far storia che, partendo dal teriitorio, certo non è locale e che utilizza e mette alla prova gli strumenti e i metodi della più recente storiografia internazionale. Dàll'affcrmarsi delle città come luoghi di riaggregazionc del potere e delle istituzioni nell'alto Medioevo, allo sviluppo forte, precoce e differenziato dei comuni, dalle nuove fondazioni urbane, all'impiantarsi'degli ordini mendicanti le vicende del Medioevo in Piemonte sono ripercorse e lette sotto nuove angolature. Non succede spesso che una raccolta di scritti di diversi autori riesca ad avere un aspetto organico e unitario o che argomenti tanto austeri possano offrire pagine di cos'i gradevole e godibile leggibilità, ma basta sfogliare il libro per incontrare episodi singolari che illuminano squarci di una realtà politica, sociale e culturale quanto mai rivelatori. Come lo straordinario «Drang noci) Oslen» monfcrrino del 1224-5, la sfortunata impresa degli Alcramici che volevano assicurarsi stabilmente il regno di Tcssalonica, una storia avventurosa e piena di vicissitudini che attorno a Demetrio — un Monferrato che non a caso portava il nome del santo patrono di Salonicco — vede incrociarsi gli interessi contrastanti del papa Onorio III, di Federico li, del despota dell'Epiro Teodoro Dukas o dello zar dei Bulgari, il tutto nel quadro minaccioso dell'impasse delle crociate e della precoce crisi dell'impero latino di Oriente. O come lo sciopero militare di cui fu vittima un secolo dopo un altro Monferrato, Teodoro I Palcologo. Accanto a questi personaggi eccellenti si affollano creature preoccupanti che sembra1 no aver ossessionato l'immaginazione dei contemporanei: i ribaldi. Sono i diversi, gli emarginati, coloro che stanno dove non dovrebbero stare e fanno quello che non si deve fare. Che passano il tempo all'osteria giocandosi fin le brache o la camicia, che bestem¬ miano, che organizzano la prostituzione. Da Vercelli a Cuneo, a Pinerolo, da Villafranca Piemonte ad Azeglio, a Chicri, a Revello, Pagno, Balangcro gli statuti delle città e dei villaggi li dipingono a fosche tinte come uomini perniciosi e da evitare, ne interdicono i rapporti con i cittadini, ma nello stesso tempo concedono loro, per controllarli, strutture e autorità, addirittura un «podestà dei ribaldi» che regola e garantisce la segregazione, un'autorità carnevalesca che all'occasione però esegue sui suoi sudditi le sentenze capitali. Questo mondo trasgressivo che si sviluppa accanto alla civile società dei noimali evoca le dròlerics dipinte sui margini dei manoscritti miniati, i rilievi posti in basso sugli zoccoli delle facciate delle chiese, le bislacche e plebee «misericordie» scolpite sotto i sedili degli stalli dove sedevano i canonici per il coio. A condizione che abbia i suoi luoghi e le sue regole le società medievali ammettono il disordine. * * Storie e cronache dinastiche modellate su testi d'Oltralpe o — talvolta — appena sfiorate da esempi umanistici, tutte volle a celebrale i fasti, le magnificenze, l'antichità della casata confermano l'immagine del Piemonte come luogo di frontiera. Se in Monferrato si guarda, con sguardo distiano, verso l'Italia, a Saluzzo Goffredo della Chiesa scrive con l'occhio volto a Parigi ed evoca le «mola lille cosse c gentilezze» che Tommaso III ne aveva riportato, orologi musicali, mappamondi di bronzo, intagli, rilievi, libri miniati, disegni, reliquie. Via via che il tempo passa, che i conflitti succedono ai conflitti, che la potenza dei Savoia si fa sempre più preponderante, schiacciante addirittura, i cronisti monferrini e saluzzesi avvertono la forzata impotenza e l'inarrestabile decadenza dei loro signori. Di fronte a questa impasse crescono gli accenti nostalgici, i valori cavallereschi lasciano il posto a una rassegnata religiosità. E il Medioevo declina in Piemonte in un melanconico autunno. Enrico Castclnuovo