Beirut, un aeroporto per l'inferno di Tito Sansa

 Beirut, un aeroporto per l'inferno Beirut, un aeroporto per l'inferno Solo tre compagnie se ne servono ancora - Una hostess: «Ogni volta che sono di servizio mi chiedo se è l'ultima» - Cecchini sulla strada che porta in città o posti di guardia con miliziani-rapinatori - I «desaparecidos» dei taxi - Per lasciare il Libano c'è chi strapaga la nave Il 24 maggio, quando il ministro degli Esteri Giulio Andreotti si recò in Libano per incontrare il presidente Amin Gemayel, non si riuscì a trovare in tutta Beirut una sola persona disposta ad andare ad accoglierlo all'aeroporto internasionale (Aib). .E' troppo pericoloso — gli fecero sapere — non possiamo garantire per la sua incolumità.. Fu scartata perfino la proposta di far presidiare dall'esercito la strada dell'aeroporto e di formare un convoglio di vetture blindate preceduto e scortato da messi corazzati dell'Armée. Andreotti dovette sbarcare dall'aereo a Larnaca, nell'isola di Cipro, e di li, a bordo di un elicottero, rag- giungere il palasso presidenziale di Baabda, aggirando a bassa quota i quartieri musulmani di Beirut. Allora, meno di un mese fa, l'Aib veniva giudicato dai frequentatori abituali — i piloti e le hostess della compagnia di bandiera libanese «Mea» — un posto «piuttosto pericoloso.. Oggi gli stessi dicono che è il posto «più pericoloso del mondo, e sensa falsi pudori aggiungono che si metteranno in malattia «per paura», a costo di rischiare il licenziamento. «Ogni volta che sono di servizio — dice una hostess italiana che lavora da sette anni per la Mea — mi domando se è l'ultima». Ed elenca l pericoli: le cannonate che artiglieri sconosciuti «si divertono, a tirare di tanto in tanto sulla pista, proprio mentre un aereo sta per toccare terra o levarsi in volo, le mitragliate che ignoti cecchini appostati lungo la strada per Beirut dirigono verso le vetture di passaggio, la sona di combattimento accanto al campo palestinese di Borj el Barajneh che bisogna per forsa costeggiare, i posti di blocco di miliziani armati che rapinano vetture e denaro. Per gli stranieri in arrivo all'Aib — in particolare per gli americani, gli inglesi e i francesi e, in genere, per i diplomatici, i docenti all'università di Beirut e i giornalisti —1>( è poi un altro pericolo, quello di venire rapiti. Fino a un paio di settimane fa, all'aeroporto di Beirut, dietro una facciata di efficienza a livello internazionale, esisteva il caos, ma organizzato. C'era una divisione di competenze, come dappertutto, tra servizi di volo (torre di controllo, personale a terra), polizia di sicurezza, dogana. Ma all'interno di ciascuno di questi comparti vi era una suddivisione politica tra filogovernativi, drusi e sciiti, che non risultava ai forestieri ma non sfuggiva all'occhio attento dei passeggeri libanesi. Mettersi in fila dinanzi ai controllori della polizia era un'avventura. Chissà se il poliziotto era uno sciita, un druso o un governativo? I libanesi si sapevano scegliere la coda giusta. Molti stranieri no. E così alcuni segnalati già all'istante dell'arrivo sono stati rapiti appena usciti dall'aeroporto. E' accaduto il 22 maggio a due francesi, il giornalista Jean-Paul Kauffman e il ricercatore Michel Seurat, era accaduto due mesi prima a due diplomatici parigini, è successo al direttore dell'ospedale americano David Gibson il 28 maggio, e a molti altri ancora. Appena saliti sul tassì fuori dell'aeroporto sono spariti, su precisa segnalazione. Non è ini>ece mai successo che sia stata rapita una persona non influente, i «kidnappers» sono sempre andati a colpo sicuro. Incredibile è il fatto che le autorità da molto tempo sapevano ciò che accadeva dentro e subito fuori dell'Aib. Tant'è che avevano dato precise disposizioni ai tassì di controllare identità e destinazione dei passeggeri diretti in città. Ricordo che già due anni fa, avendo domandato a un poliziotto il motivo della sua curiosità, mi rispose: «E' una formalità. Se vi succede qualcosa, sappiamo chi eravate». Oggi la formalità non esiste più. All'aeroporto poliziotti, doganieri e controllori filogovernativi e drusi hanno dovuto cedere (dopo sparatorie da Far West) alle masse dei miliziani sciiti di Amai, e chi ha avuto l'incosciente coraggio di venire fino a Beirut in aereo ha una sola possibilità di raggiungere il centro in buona salute: o farsi prelevare da un autista fidato che abbia «aderenze» presso i nuovi padroni dell'Aib o trovare una delle rarissime vetture blindate in circolazione. Lo scalo si trova al margine meridionale della città, collegato con essa da un'unica superstrada, un rettilineo deserto di quattro-cinque chilometri tra dune di sabbia in mezzo alle rovine dei casermoni in cui alloggiava il contìngente di pace americano (fatti saltare da un «commando» suicida), a Sud c'è la campagna, a Ovest altre dune lo dividono dal mare, a Nord una bidonville sciita, roccaforte del proletariato di Amai, che quasi lo incorpora. In pratica è territorio degli sciiti. Occupato dai guerriglieri di Amai, che presidiano non soltanto il terreno e le piste ma perfino la torre di controllo, l'Aib miracolosamente funziona. Quasi tutte le compagnie straniere lo hanno cancellato dai loro programmi, insieme con la Mea sono rimaste soltanto in tre: la sovietica Aeroflot, la bulgara Balkan Air e la romena Tarom. L'ultima a stralciare Beirut dai suoi piani di volo è stata (dopo il dirottamento della scorsa settimana) la compagnia giordana Alia. Ma anche i passeggeri della Mea sono in continua diminuzione perché — dice un funzionario — «non sono mica dei suicidi». Invece di rischiare le cannonate, le mitragliate, i sequestri, le rapine, e i non infrequenti atti di pirateria aerea, i passeggeri per e da Beirut preferiscono da un po'di tempo la assai più faticosa e lunga via del mare, attraverso Larnaca. Una volta, ancora fino a qualche mese fa, era questa la strada degli emigrati meno abbienti, mentre chi aveva fretta e denaro prendeva l'aereo. Ora è l'inverso: soltanto chi ha poco da temere prende l'aereo, mentre chi non vuole rischiare e non ha paura di spendere, prende il battello notturno che congiunge il sicuro porto di Jounii (a Beirut Est) con l'isola di Cipro. Si chiamano «Sun Boat» i due battelli della tranquillità, e la compagnia che li gestisce fa pagare salata la sicurezza che dà. C'è gente che ha dovuto sborsare fino a 250 dollari (quasi mezzo milione di lire) per una cabina, su navi prive di ristorante e con il servizio sgarbato. «E' il prezzo per non avere paura» ha risposto la settimana scorsa un giovane ufficiale del «Sun Boat» a una hostess della Mea che protestava per quest'esosità, pur avendo preferito prendere il battello anziché volare gratuitamente verso un riposo in Europa su un aereo della propria compagnia. Ma è un caso isolato. La maggior parte dei suoi colleghi (incoscienti o eroi?) continua a prestare servizio all'aeroporto «più pericoloso del mondo» nel quale — ogni volta che arriva o parte — Il passeggero si mette nelle mani degli sciiti di «Amai» e del buon Dio, Allah. C'è la consolazione che Amai, in arabo, vuol dire «speranza». Tito Sansa

Persone citate: Amin Gemayel, Andreotti, Balkan, Boat, Giulio Andreotti, Michel Seurat, Paul Kauffman