Il giallo della fibula di Carlo Carena

Il giallo della fibula LATINISTI TRA SCOPERTE E INGANNI Il giallo della fibula Anche le acque apparentemente immobili dell'antichità hanno le loro correnti som- . merse; il moto degli immissari e degli emissari le fanno flut- ■ ruarc e ne mutano dolcemente i livelli. Poca cosa forse quanto a dimensioni; ma spesso con ampi sommovimenti. E' di questi ultimi anni e mesi una delle più clamorose sortite dal bacino dell'archeologia e della letteratura latine. Chiunque cominciasse, e ancora cominci lo studio del latino, alla prima apertura della grammatica o di una storia letteraria si trova di fronte a un documento strano e dunque affascinante: la cosiddetta fibula Praenestina, una fibbia d'oro trovata, vi si dice, in una tomba di Prcneste c recante in caratteri greci da destra a sinistra la scritta Manios med fhefhaked Numasioi, «Marno mi fece per Numasio» (è l'oggetto stesso a parlare, secondo l'uso del tempo): «il più antico testo in lingua latina, risalente al VI secolo avanti Cristo» anche secondo il Palmer. Quello spillone con cui ' chissà quale dama aveva trattenuto le proprie vesti sul corpo grazioso aveva fatto il suo ingresso trionfale nel mondo degli studiosi e del pubblico ■un secolo fa, quando Wolfgang Helbig, vicedirettore del l'Istituto archeologico germa nico di Roma e stimato studioso di epica greca, l'aveva illustrato e aveva rivelato come ne fosse venuto a conoscenza alcuni anni avanti: trovato in una tomba a Palestrina nel 1871, dall'85 il gioiello faceva parte del Museo di Villa Giù lia. Alami aspetti linguistici della sua arcaica iscrizione (i' nominativo in -os, il dativo in -oi, la -s- di Numasioi per la -rdell'equivalentc Numerìo, l'insolito raddoppiamento del ver bo facto al perfetto «qui probabilmente spiegabile con la posizione geografica di Preneste sulla frontiera linguistica fra latino osco») ne fecero una ghiotta pastura per i glottologi. 'L'i.sprìzione è alla bas£ dello stu dio e della spiegazione di numerosi fonemi nelle fondamentali grammatiche storiche di Meillct o di Leumann, capeggia le grandi sillogi delle iscrizioni latine, dal Corpus del Mommscn e del Dessau alle analisi del Warmington e del Pisani. 11 Mommsen vi trovò] persino una conferma «definitiva» alla sua tesi che davvero Romani e Cartaginesi sottoscrissero un trattato di alleanza nel 509, come narra Poli bio, visto che per quella data la scrittura era certamente d'uso comune nel Lazio. Ci volevano, dopo qualche timido dubbio già affiorato qua e là, la competenza epi grafica e il tenace acume di Margherita Guarducci perché ne nascesse invece un affare poliziesco. Una prima memoria della Guarducci apparve nel 1980, e già metteva il campo a soqquadro. Imprecisioni, contorsioni, rivelazioni scaglionate nel tempo, gli stretti rapporti del filologo Helbig con un trafficante di oggetti antichi, tale Francesco Martinetti, utilizzato in commissioni ministeriali e coinvolto come tombarolo nella faccenda della fibula, proiettavano ombre oscure. Ulteriori, ricerche, riferite pochi mesi fa dalla Guarducci ancora nelle Memorie dell'Acca, ; > U i demi a Nazionale dei Lincei, accrescono le ombre, e la luce. A un'attenta osservazione, i caratteri incisi sulla fìbbia mostrano scarsa domestichezza dell'incisore con la scrittura sinistrorsa: fatto strano per chi non avrebbe dovuto conoscerne altre. Anche l'esame chimico del metallo ha appurato che la sua permanenza nel sottosuolo non fu molto lunga, certo non di due millenni e oltre. L'opera si rivela come il frutto della genialità di un antiquario e della dottrina di uno scienziato; e fu Io stesso Helbig, secondo le prove della recente perizia calligrafica, a incidete maldestramente le famose ventisei lettere e ad architettare il tutto con una mira ben precisa: la propria nomina alla direzione dell'Istituto Germanico. La-nomina non arrivò nonostapte quél colpo clamoroso è, per un bel po', riuscito. Helbig si ritirò a far bella vita in combutta con l'amico Martinetti e continuando a fornire lucrose expertises anche dopo la morte di costui nel 1895 e fino alla propria nel 1915. Le sue equivoche strategie risalivano dei resto, come scopre ora la Guarducci, a ben più antica data. Quando, nel 1878, Helbig si vide contestato dai colleghi uno studio «fondamentale» sull'uso del rasoio nell'antica Roma, avvalorò le proprie tesi esibendo il primo esemplare di una novacula, l'antico rasoio, in ferro con manico d'osso. Qualche anno dopo, l'efficace strumento scomparve di nuovo, per fare una fugace riapparizione nel '26 con altri esemplari poi risultati falsi, e quindi parire nuovamente nel scorrinulla, come dal nulla era stato tratto. Erano i primi allenamenti, sulla viva pelle altrui, per una carriera destinata, se non alla gloria, almeno alla fama, e al benessere. Ma mentre esce di scena la fibula, il mercato dei papiri ci va rifornendo su ben altre basi di acquisizioni di grande importanza per la storia della cultura. La Fondazione Bodmcr di Ginevra, già benemerita fra l'altro per la scoperta e la prima pubblicazione nel '58 dell'unica commedia di Monandro superstite nella sua interezza, // misantropo, ora ci offre nelle sue elegantissime edizioni e con traduzione francese un'ulteriore preziosa primizia. Un manoscritto papiraceo della fine del IV o inizio del V secolo, appartenente al fondo della Fondazione Bodmer, si è rivelato come un serbatoio di «visioni», suggestivi poemetti della tarda latinità e della prima età cristiana, che narrano sogni immaginari e misteriose traslocazioni celesti dell'anima umana. In questa prima Visione di Doroteo un povero peccatore Doroteo stesso che si esprime in prima persona, ma «con in cuore un desiderio, uno slancio proveniente dalla grazia divina», si sente calare sulle palpebre in pieno giorno, al colmo della luce del sole, un dolce son no: «Oh io non so né tu sai le gloriose visioni che allora mi apparvero.' Tremo a mettere per scritto la luminosissima perfezione dell'Essere, che potei vedere». Trasferito nel vestibolo di un sublime palazzo, Doroteo scorge infatti il Signore invisibile a tutti i viventi dell'uni verso, e si trova assiso nella gloriosa compagnia di alcuni vegliardi. Contravvenendo all'ordine ricevuto, s'inoltra nel palazzo, ove assiste a strane azioni e si pente della propria audacia. Sopravviene la pun' zionc: Doroteo è fustigato, poi riportato dinnanzi, alle porte dove, per intercessione di Cristo e dell'angelo Gabrio le, supera il giudizio divino. Il battesimo finalmente lo purifi ca e gli conferisce una bellezza e una maestà sovrumane. Posta al tramonto misticheggiante e neoplatonico della cultura pagana, così pure la Visione di Doroteo s'innesta sui primi rami della tradizione visionaria del Medioevo cristiano, destinata a culminare nella Commedia dantesca. I suoi 34 J stentati esametri greci, che hanno superato fortunosamente i secoli sul fragile midollo di una canna egiziana, s'accodano ora a questa disperata ricerca dell'anima umana per svincolarsi dalla materia e dal tempo, per uscire dalle tenebre nella luce intellettuale pie¬ na d'amore. Carlo Carena

Luoghi citati: Ginevra, Lazio, Palestrina, Roma