Milano rendez-vous con la bella gente

Le gallerie delle grandi città italiane hanno circa cento anni. Perché lefecero e che cosa hanno significato per la vita di Milano, Roma, Napoli e Torino Le gallerie delle grandi città italiane hanno circa cento anni. Perché lefecero e che cosa hanno significato per la vita di Milano, Roma, Napoli e Torino Milano, rendez-vous con la bella gente Napoli, qui regnò il café-chantant LA galleria Vittorio Emanuele di Milano, la più celebre e monumentale d'Italia, non nacque sotto i migliori auspici. La grandiosa vetrata della copertura, già in opera, crollò un giorno del 1874 rovinosamente, a 'causa di una terribile grandinata che si era abbattuta su Milano. Contro Giuseppe Mengoni, l'ingegnere progettista che aveva avuto l'incarico di sistemare piazza del Duomo sin dal 1861, sembrava accanirsi quella malalingua di Cario Dossi, l'esponente più in vista della scapigliatura lombarda. Raccontava che in occasione della visita a Milano dell'ambasciatore marocchino, questi alla vista della Galleria, splendente di luci e di decorazioni, «meravigliò e, per fare un complimento all'architetto Mengoni che lo accompagnava si dice che gli dicesse "Tutta Marocca!". Per i milanesi "marocca" (con la emme minuscola) vuol dire scarto, rifiuto di mercanzia». A poche settimane dall'inaugurazione, nel 1877, per assicurarsi che tutto fosse a posto per il gran giorno, il Mengonl stava compiendo un giro di ispezione sull'alto delle impalcature. All'improvviso si udì un tonfo che rimbombò cupamente sotto le volte, lo sventurato ingegnere era precipitato al suolo sfracellandosi. Disgrazia? L'orrenda fine del Mengonl non funestò peraltro la pomposa cerimonia che segui, a meno d'un mese, con larga partecipazione di popolo e di autorità. I milanesi adottarono subito la Galleria come un salotto; il bel mondo vi si dava conve¬ •Signorine Grandi Firme»; le «sorelline» e «adolesccn- ti» di Mario Mariani e la «Donna Tipo Tre», non ancora femminista, ma già Indipendente, di Umberto Notar;. Al Grand'Italia (dov'è ora la libreria Rizzoli) si faceva vedere spesso, tra un viaggio e l'altro nelle capitali europee in sleeping-car o in Bugatti, l'idolo delle sartine Guido Da Verona II dandy della letteratura galante appariva In monocolo, abito aderente, ghette, profumatissimo e con il cane prediletto, uno zampettante pechinese, al guinzaglio. C'è, naturalmente, chi sostiene tra i vecchi milanesi, con un leggero accento di malinconia, che la Galleria non è più come uan volta. Forse è vero. Ma è anche vero che a Milano la gente non ha smesso di vedersi in Galleria. gno, passeggiava, sedeva ai tavolini dei lussuosi caffé, consumava costose cene al Savlnl. Manovali e operai frequentavano assai meno la Galleria. Il ceto medio impiegatizio, semmai, ardiva una visita domenicale, con tutta la famiglia, sotto le cupole e le volte vetrate, attardandosi magari per assistere, all'imbrunire, allo straordinario spettacolo del «Rattin». Il «Rattin» (topolino) era una locomotiva a vapore in miniatura che correva lungo la balconata In alto, trasportando 11 fuoco per l'accensione dei lattescenti globi della illuminazione a gas. Poi la Galleria sfollava, per rianimarsi dopo la rappresentazione alla Scala. Allora, gentiluomini in tuba e signore in sfarzosi abiti da sera adorne di cascate di pietre scintillanti, prendevano posto al tavolo riservato del restaurant, I milanesi si davano appuntamento con un «ci troviamo in Galleria» non soltanto per il rituale aperitivo, abitudine cui hanno contribuito in non lieve misura i rinomati caffé della Galleria, come il Gambrinus, il Biffi, il Campari, assai familiari ad artisti, intellettuali e gaudenti. Da oltre un secolo a questa parte, la Galleria Vittorio Emanuele ha assistito al mutare dei tempi e dei costumi, adattandosi ogni volta ai rinnovamenti e alle mode. Dopo la Prima guerra mondiale, con il finire della Belle Epoque il mondo era irrimediabilmente cambiato. Avanzavano gli Anni Folli, conquistando anche il salotto milanese. Si stavano delineando i «mammiferi di lusso» di Pitigrilli, anticipatori delle MILANO aveva già la sua Galleria da un decennio quando Napoli dava inizio ai lavori della Umberto I. L'approvazione del progetto dell'ingegner Emmanuele Rocco, tecnico del ferro, e dell'architetto Paolo Boubée risaliva a un paio d'anni prima, - Si voleva adeguatamente abbellire la popolare via Toledo, ribattezzata via Roma dopo 11 1870, costruendovi un Imponente passage a crociera che la collegasse con 11 teatro San Carlo e che rivaleggiasse con la monumentale Galleria milanese. Il cantiere andò avanti per una decina d'anni. Nel frattempo, piemontesi e svizzeri si erano trasferiti nell'ex capitale borbonica portando con sé le nordiche specialità dolciai I. Fatta l'Italia, si dove-, vane italiani. Inaugurala nel 1897 con gran pc ipa, in presenza Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Opera dell'ingegnere Mcngoni, fu inaugurata nel 1877' Botando lotti Napoli, Gallili.» Umberto I" dei sovrani, con festoni, imbandieramenti e sfavillìi di luci, la Galleria Umberto I venne adottata immediatamente dal bel mondo intellettuale e artistico della città. Si sviluppava su due plani sovrapposti, uno al livello stradale, luogo di passeggio e di incontro, l'altro nel sottosuolo, dove trovò sistemazione il più celebre Café-chantant di tutto il regno, il Salone Margherita, trasformato poi In teatro di varietà. Sul palcoscenico del Margherita passarono tutti i grandi dello spettacolo leggero: sciantose, canzonettiste, romanziate, buffi italiani e stranieri, si esibirono inventando sera dopo sera il variété, dal monologhi alle sceneggiate, dal classici del «ridere canoro» (spécialiste le dimenanti gommeuses) al fini dicitori. Musicisti e poeti come Caparro, Callfano, Gambardella, Valente, Di Capua, Murolo, Di Giacomo, Russo vi erano di casa, come del resto Scarichilo e la Serao, che lavoravano insieme al Mattino, e Pasquariello, la Donnarumma, Maldacea, la Fougez, Lydia Johnson, Maria Campi, la romana che inventò «la mossa» ovvero, come dicevano 1 raffinati, il coup de ventre, fino alla Cavalieri e a Mata Hari. Dalla redazione del Mattino, alloggiata al primo piano, scendevano, oltre al direttore, disinvolti cronisti per raccogliere pettegolezzi e piccanti confidenze sui personaggi del giorno. Lo stesso Benedetto Croce non disdegnava, nei primi anni del secolo, di ingaggiare con I -flanellisti. della Galleria accese discussioni, quasi mal di carattere rigorosamente filosofico. Di domenica, dopo la Messa, intere famiglie dabbene non mancavano alla passeggiata in Galleria, senza dimenticare di far la coda da Caflisch per comperare la «mappatella» dei pasticcini del Nord.Quasi tutti quelli che furono caffè assai rinomati, da lungo tempo sono scomparsi, Il Salone Margherita, dal canto suo, dopo aver vissuto la lunga e splendida stagione del varietà, si adattò a cinematografo, arrendendosi, alla fine, alle Invadenti lanterne rosse per sopravvivere. All'elegante società di una volta agli artisti, ai galanti, agli intellettuali, ai giornalisti (il Araffino ha traslocato da anni), si è sostituita un'umanità più sportiva tifosa del Napoli e di Maradona, del tutto indifferente alle bianche divise del marinai americani a caccia di condiscendenti .segnorine». Nel plano sottostante, la luce rossa del vecchio glorioso locale riverbera I desolanti colori dell'abbandono, rj.