Uno studioso in Africa riabilita l'altra faccia di Rimbaud

Sulle tracce del poeta che «fuggì da se stesso» Sulle tracce del poeta che «fuggì da se stesso» Uno studioso in Africa riabilita l'altra faccia di Rimbaud . PARIOI — Su un muro del tempio di Luxor, tra le iscrizioni geroglifiche, sta inciso il nome di Rimbaud: da quando lo si è scoperto si discute sull'autenticità di quella firma. Tracce di questo genere Rimbaud ne ha lasciate tante, nel suo decennio d'Africa, e tutte immancabilmente dubbie, incerte, fragili. Alain Borer è andato a raccoglierle, a vederle, a toccarle, in una sorta di pellegrinaggio che ora racconta in due libri: «Rimbaud en Abyssinie» (Seuil) e «Un sieur Rimbaud se disant négociant» (Lachenal et Ritter). La seconda metà della vita di Rimbaud, la faccia nascosta della sua luna, la faccia silenziosa, ha sempre fatto scuotere la testa, ha imbarazzato, ha deluso. Il più promettente dei poeti lascia la letteratura per gettarsi in Abissinia a fare il commerciante. Va a morire muto e dimenticato, proprio quando era ad un passo dal successo. André Breton affermava orgogliosamente che per lui non ci sarebbe stata nessuna Abissinia, ma Alain Borer ostinatamente vuol riabilitare il Rimbaud africano: secondo lui c'è un solo Rimbaud, due volte grande, attraverso la poesia e attraverso il silenzio. La riabilitazione comincia dal giudizio morale: Borer dimostra che Rimbaud, contrariamente a quando affermato dalla sua più stimata biografa, l'irlandese Enid Starkie, non si dedicò al commercio degli schiavi. Commerciò armi, invece, e cercò di farsi una fortuna vendendone, dopo un pericoloso trasporto in carovana, al re Menelik, nel 1887. Le trattative con il futuro Negus furono disastrose: «Mi ritrovo con 1 quindicimila franchi che avevo — scrisse alla famiglia — dopo essermi affaticato In maniera orrìbile per due anni». La vita africana di Rimbaud fu tutta un viaggio, frenetico e inutile, tra Harar, Aden, Il Cairo e cento altri posti sconosciuti; i veri eventi, pochi: ... .. .... .. .. Arthur Rimbaud in una foto scattata da lui stesso ad Harar teraria. Ma è forse irreale l'inferno di Une saison à l'enfer, solo perché è scritto? Ed è forse meno interiore l'inferno africano solo perché non è scritto? E' questa in fondo la domanda posta da Borer. «Mi credo all'inferno, 'quindi ci sono» aveva scritto Rimbaud; ed anche: «Ecco la punizione — In marciai». Porote profetiche, dotate di un'eco nei soli testi che rompono il silenzio del poeta in Africa, le lettere alla famiglia e agli amici. Lettere di solito trascurate, per l'ovvio privilegio che si dà a quelle del giovane •veggente; ma non sembre trascurabili. Vi si trova tutta l'ossessione dell'uomo in fuga, più che quella dell'uomo alla ricerca di qualche cosa. Era ancora un ragazzo quando aveva scritto che «to é un offro», riferendosi alilo che scrive, parallelo e diverto dall'io cosciente. Da questo altro io Rimbaud fuggiva, facendolo violentemente tacere, impedendogli di rivelarsi, spegnendolo nella solitudine. Paolo Tortonese commerciò un po' di tutto, sposò un'abissina, si accese di interessi geografici, contrasse un cancro al ginocchio, che lo uccise. Borer ripercorre ogni passo di questa lunga cerimonia sacrificale, vede le facce che vide Rimbaud, racconta il calore e gli odori di luoghi immutati, svela la falsità di qualche monumento (la casa che a Harar chiamano Rimbo-house fu costruita nel 1900). E soprattutto riabilito il dolore, la fatica assurda, la cocciutaggine devastante di questo Rimbaud che sopprime in sé il poeta, preoccupandosi anche di cancellarne la memoria (se è vero quel che si stima, che i due terzi dei suoi scritti siano stati distrutti da lui o per sua volontà). Rimbaud è un esempio forse ùnico di autodistruzione di un artista, che in Africa diventa addirittura l'autodistruzione di un uomo. I viaggi massacranti in carovana, il caldo, la fatica, il pericolo, la malattia: un inferno. Una stagione allinferno reale dopo quella let¬

Luoghi citati: Abissinia, Aden, Africa, Il Cairo