E fu il diluvio del belcanto di Massimo Mila

E fu il diluvio del belcanto SAGGIO DI UN INGLESE SULL'OPERA NAPOLETANA E fu il diluvio del belcanto Nella presente infatuazione per l'opera settecentesca torna a proposito la traduzione d'un libro dell'universitario inglese Michael F. Robinson su L'opera napoletana, a arra di Giovanni Morelli ed. Marsilio. Circoscrivendo due capitoli del suo precedente libro Opera before Mozart e mettendoli sotto la lente d'ingrandimento, l'autore traccia un esame sistematico di quel fenomeno artistico, studiato dapprima nelle sue origini storiche (i quattro famosi Conservatori napoletani, cioè asili per l'infanzia abbandonata), poi nella sua destinazione sociale (rcatri popolari e teatro di corte), infine in tutte le sue componenti e categorie: opera seria (che l'autore chiama «eroica») e opera comica; libretti (c qui naturalmente il libro coincide in parte col bellissimo Musica c maschera del nostro Gallarati, senza potere ancora tener conto del livello a cui è pervenuta in questi ultimi anni la nostra «librctrologia», essendo l'edizione inglese del 1972), e infine la musica (nella traduzione italiana: «le partiture»). Quest'ultima viene accuratamente smontata nei suoi meccanismi costitutivi: il recitativo, l'aria, il duetto, gli assiemi e i concertati, l'ornamentazione, la distribuzione delle voci, la consistenza e funzione dell'orchestra. Questi clementi vengono seguiti lungo le loro trasformazioni nel tempo attraverso trattati dell'epoca e testimonianze di musicisti, di teorici, di letterati e di viaggiatori. Non è un libro che pretenda di recare novità, bensì vuol essere una sintesi di quanto già si sa, ma nella parte più propriamente critica si giova d'accurate letture di spartiti anche poco noti. Soffusa di umorismo britannico, l'esposizione ha un tono che si vorrebbe accostare alla letteratura di viaggio: le usanze teatrali napoletane sono viste con divertita indulgenza, turistica c quasi coloniale, come gli esploratori ottocenteschi avrebbero potuto osservare i costumi degli aborigeni d"Africa o d'Australia. (Il titolo originale suonava: Napoli e l'opera napoletana). Perché è utile la presenza di questa ricapitolazione nella situazione attuale della nostra cultura musicale? Petché la sua visione storica si avvale di quel tranquillo equilibrio critico e di quel buonsenso che non sempte distinguono i nuovi fanatici del belcanto, sia in America che fra noi. Il Robinson non si nasconde nulla delle degenerazioni e delle assurdità a cui andò inconrro l'opera scria nella sua crescente dedizione al culto del virtuosismo vocale. Dai documenti dell'epoca reca tutte le testimonianze del caso sulla stoltezza ineffabile delle ('sonatine di gola» (termine spregiativo che si trova usato tanto da Beethoven quanto da un testimone insospettabile come Metastasio). Non gli sfuggono l'accademismo e la staticità in cui andò ad insabbiarsi quello spettacolo mondano, goffamente infiocchcttato di pirotecnici vocalizzi, ch'era l'opera seria, mentre l'opera buffa iniziava la sua marcia verso la naturalezza e la continuità dialogica della commedia, che l'avrebbe infine condotta alla perfezione mozartiana, punto d'arrivo ideale, ancorché non esplicitamente dichiarato come nel libro di Gallarati. * * Ma mentre documenta largamente l'insoddisfazione cui l'opera seria andava incontro negli strati più illuminati dell'opinione contemporanea, il Robinson adduce anche testimonianze opposte, di tutt'altro suono, clic provano la presa immensa e sincera che il melodramma esercitava, al di fuori delle stupide mode mondane. Ecco una pagina bellissima di Wilhelm Ilcinsc, il protoromanrico autore dell' ArdingMlo (1787), romanzo storico d'ambiente italiano rinascimentale, centrato sulle arti figurative, mentre la meno nota IliLtegard von lìohenlal (1795), fa perno soprattutto sulla musica. In certi Musikalische Dialogen (1777), che varrebbe forse la pena di riscoprire, egli affermava esattamente il contrario di quello che racconta la maligna satira di Benedetto Marcello. «Chiunque abbia assistilo ad una Leila opera rappresentala a Napoli non avrà dubbi sul fatto che l'Opera può incantare l'uomo e può fargli talmente dimenticare la natura illusoria della scena ch'egli crederà di vedere un vero Alessandro, una vera Didone o un vero Ercole. In provano i petti palpitanti nell'afflizione angosciosa e le copiose lacrime che scendono sui visi dolenti delle tenere e appassiona/e donne italiane». * * E quale più ottimistica e persuasiva definizione dell'aria che quella di Christian Gottfried Krause, avvocato e giudice a Berlino, ma anche musicista, musicologo e compositore, nel trattato Von der musikalischen Poesie (1752), altro libro di cui nasce la curiosità? «A volte i sentimenti diventano per noi così forti e gli affetti così grandi che non riusciamo a star quieti se non ce ne liberiamo coll'aprire il nostro cuore: è quel che accade nell'aria». Allora come la mettiamo con quest'opera eroica napoletana? stupida esibizione di virtuosismo acrobatico, o profonda emozione espressiva? infatuazione di zerbinotti alla moda, o lacrime femminili e stendhaliani petti palpitanti? Il libro del Robinson ci mostra, per cosi dire, l'essere c il dover essere dell'opera seria. Da buono storico l'autore ricorre a quello strumento fon- V damentalc che è la cronologia, la distinzione dei tempi. L'opera napoletana non è un blocco sincronico compatto. E' uno svolgimento diacronico, che va incontro a una svolta deleteria intorno al terzo decennio del secolo. La grande opera scria età quella aurorale di Alessandro Scarlatti, del divino Pergolcsi, di Vinci, forse ancora dei misteriosi Sarri, Leo, Feo. Poi fu il diluvio del belcanto. La primavera dell'opera napoletana fu meglio che l'estate. E' probabile —- suggerisce l'autore — che il Presidente des Brosses pensasse al «Se cerca, se dice» dell'Olimpiade di Pergolcsi, quando raccontava nelle Lettres familihes Icrites de l'Italie della preferenza accordata, rispetto alle brillanti arie di bravura, a certe arie «abbastanza semplici, che ben corrispondevano al loro contenuto». Altro che «corrispondere al contenuto»] Aria che non è un'aria, «Se cerca, se dice», ma quasi una rotta ed estemporanea confessione, una melodia di cui è poco dire che interpreta il senso delle parole. Oltre che le parole interpreta i silenzi, le pause, le virgole, i puntolini di sospensione, quasi come una musicale raffigurazione della punteggiatura..!.. Il Robinson spinge la sua antipatia per l'impettita aria col da capo fino a fraintenderne il sapiente equilibrio fotmale, deplorando che la sezione centrale dell'aria sia sacrificata, per estensione e importanza, alla sezione iniziale e finale, mentre è-chiaro che così dev'essere, funzionando la sezione B semplicemente quale incentivante digressione. Sarebbe come lamentarsi che le ultime due strofe del sonetto siano soltanto di tre versi e non più di quattro. Volendo adduttc qualche altra doverosa riserva, non si può accettare l'autonomia d'iniziativa attribuita ai librettisti, che soltanto nella cronologia teorica della confezione di un'opera vengono per primi; prassi dell'epoca era tutto un inestricabile confluire d'interventi: compositore, impresa¬ rio, pubblico, la corte c la piazza, e il povero librettista età l'ultima ruota del carro, un mero esecutore di ordini. Bisognerà venire al Metastasio e poi al Calzabigi per trovare librettisti capaci d'intervento formativo. Fluida e scottcvole, la traduzione del libro è tuttavia poco attendibile per eccesso d'eleganza. La semplicità del testo inglese non si giova di certe astute sciatterie («performativo» per «esecutivo») e di cetti vezzi linguistici. E' filologicamente spititoso, ma fuorviantc, tradurre climactic, che deriva da climax, con "climatico*, che deriva da «clima». Certe interpolazioni tendenziose (che la presenza dei vocalizzi sia «un puro segno», il Robinson non s'è mai sognato di scrivctlo), e certe manipolazioni (il chiarissimo sounds out of place che diventa «descrive uno spaesamento, comunque, un'inopportunità») fanno pensare alla pratica medioevale del tropo e dimostrano l'intenzione di sollevare la bonaria prosa dello studioso inglese alla ricercatezza concettuale delle nostre mode letterarie, di aii è brillante esempio il saggio Storia e geografia di un'idea musicale settecentesca premesso alla traduzione ed assunto a fornire l'immaginario sottotitolo dell'opera. Massimo Mila Giovanni Battista Pergolcsi in una stampa d'epoca

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