Un genio nemico dell'arte

ET DALLA MATERIA ALLO SPAZIO TOTALE Un genio nemico dell'arte DUBUFFET DALLA MATERIA ALLO SPAZIO TOTALE ET DALLA MATERIA ALLO SPAZIO TOTALE Un genio nemico dell'arte Jean Dubuffet c stato "una delle figure centrali del dibattito artistico nell'ultimo quarantennio e nello stesso tempo, con tenace consapevolezza, una delle più contestative di ogni presunta certezza e acquisizione di questo dibattito. Un vero genio, fotse divertito e maligno, forse profondamente serio, dell'antiarte: un coltissimo profeta e propagandista della non-cultuta, un sontuoso poeta dell'immagine giottesca e della materia apparentemente informe e vile; un artigiano che si dichiara «pasitone d'èlrc boni me du commuti du pila bai étage» e che si crea dopo il 1969, lungo otto anni, una sua proptia, personale natura-architettura-meandro mentale, la Clmerie Falbalà a Pcrigny presso Parigi. li' stato probabilmente l'unico autentico etede (e non ricreatore artificioso e «storicizzante») dello spirito anarchico di Dada; ma, ancor di più, e alle spalle di Dada, ha voluto e saputo sfruttate a fondo materie, mezzi, mode e illusioni del tempo e del mondo postindustriale per riportare ed enfatizzare nell'oggi la sovversione scatenata dajarry e Ubu Roi nel bel mezzo delle «magnificile sorti e progressive» proposte dal primo capitali' smo d'assalto. Nato a Le Havre nel 1901, compì studi umanistici secondo ogni buona regola, così come «buone» e «corrette» regole di pittura gli vennero impartite all'Accademia Julian di Parigi dopo la prima guerra mondiale. Resse, in quella privata accademia, sei mesi, fra 1918 e 1919. Poi, in proprio, fu pittore figurativo nell'orbita non più d'avanguardia del «fauvismo»: forme semplificate, colore ricco di espressione. Dopo la prima rinuncia, per constatazione di un irrimediabile divorzio fra l'idea corrente di «arte» e un desiderio ancora confuso di consonanza totale con il fluire immediato della vita quotidiana, quale è «vissuta» e non «percepita» né giudicata dai «piccoli uomini» senza gravame culturale, qualche cosa, di quell'esperienza, pur gli rimane per il futuro. lira il 1921. Fu, per poco meno di vent'anni, mercante di vini all'ingrosso, il mestiere paterno: nulla di meglio, per essere sempre a contatto con il quotidiano, con il livello «basso», e nello stesso tempo per cercare intorno a sé, fuori dalle strutture della cultura (ma in realtà aggirandosi nei dintorni della cerchia surrealista), tracce e forme e materiali della creatività istintiva. L'alienato, l'emarginato, il bambino, la scritta sul muro. Già da decenni la «cultura» aveva valutato, talora pregiato, talora fatto uso di quel tipo di materiale. Cioè, secondo complesse idee rese pubbliche nel 1916 [Prosperità aux amateurs de luiii gente), lo aveva pervertilo, formalizzato; fatto, appunto, «arte», immoralmente privato del suo essere espressione primordiale di una realtà vera e istintiva. Quando sentì di essere lui stesso pronto a spogliarsi del suo «essere culturale», nei limiti concessigli da un personale vissuto di cui la cultura, in lui e intorno a lui, la contestata cultura, era elemento non più alienabile (e questa fu sempre la felice contraddizione che lo ha fatto grande), riprese a proporre pittura. Nel 1912, in piena guerra. Parigi occupata, ma fervidissima, esistenziale, anzi esistenzialista, con nuovissime proposte di visione e di materia: Wols, Fautricr, i più vicini al rinato pittore e pur separati da lui dall'essere, sia pure con grande inquietudine, dentro una culmi,!, una tradizione, un'idea dell'arte. Dubuffet dipinge le sue Marionette di città e di campagna, fantocci di «piccola gente» quali la «piccola gente» sente di essere, ma senza sapctlo e quindi senza deprecarlo, immersa come è nel flusso organico e indistinto della realtà: dipinti e scontornati ncll'rt piai di un colore squillante ma «sporco», graffiti in uno spazio materico che non conosce, non vuole conoscere profondità e orizzonti, ma solo, con infantile furbizia, l'alto e il basso. Con echi, negati ma presenti, di un certo Picasso, eli un certo Klee, quali correvano, ma non negati, negli stessi anni, in alami di New York. Subito è fondata la base per i successivi vent'anni di lavoro, proposta fra stupori c clamori, nel 1911, presso René Drouin. C'è una differenza, rispetto a ormai classiche sfide all'opinione pubblica, da Dada ai surrealisti: Dubuffet non vuole nemmeno contestare, perché non vuole «proporre arte», (come in realtà ancora volevano quelle avanguardie già divenute storiche, nonostante ogni proposizione in contrario), ma vuole proporre vita, disorganizzata e multiforme: piccola vita quotidiana, poco più tardi l'assoluto della vita organica inglobante in sé la particolarità della vita dell'uomo, come pullulante presenza o come semplice topografia di impronte. Gli Assemblava d'empreintes del 1951, una delle tante «scric» succedentesi : nella concezione di Dubuffet è impensabile l'opera singola, ma solo il singolo gioco, di letterarissima «ingenuità», dei fantasiosi titoli di tradizione surrealista. Per vent'anni, ogni singola serie (fino al 1961 furono contati ventiquattro «periodi», a loro volta suddivisi in singole scric) propose con straordinaria vitalità — nello stesso anno l'opera consisteva, nei soli quadri, dall'olio alle tecniche miste claboratissimc, in 1650 numeri ■— un dibattito sempre nuovo, sempre fantastico, fra evocazione di realtà allo stalo puro, brut, e materia, sottoposta ad una infinita serie di elaborazioni, di percorsi, di tensioni, di fantasia. Con poteri espressivi non impari M'aetion painting americana, e precorrendo e insegnando a europei d'ogni luogo, i «Cobra» e burri, Tapics e Baj. Con una sorta di vertice, anche didascalico, fra i Paysaga mctitaux et pierra pbilwopbiqucs del 1951-52 e le Texlurologiu del 1957. Poi, nei primi Anni 60, l'acquisita constatazione che il deprecato dissidio fra separatezza intellettualistica dell'arie e realtà senza limiti del flusso della vita organica e animale, piccolo uomo compreso, può dar luògo alla costante,"spettacolare meraviglia dell'artificio di un mondo autonomo, con un suo tempo e" spazio,., anch'essi totalmente artificiali. Nasce nel 1962, in forma di libretto figurato, il mondo di Hour/oupe, nome artificiale per un mondo artificiale ma vitalissimo, esteso dalla tela alla terza dimensione dei ritagli assemblati di polistirolo, alle sagome e alle «corazze» rese mobili dall'intervento dell'uomo, giocato fra il palesato e il nascosto, agli spazii architettati altrettanto quanto «descritti». Perché ora il mezzo espressivo si è semplificato e in un certo senso «liberato» per un massimo di spontaneità: è una grossa linea ininterrotta e circonvoluta, serrante ed evocante in ogni vatiantc di rosso e blu un continuo pullulare, fra espressione c narrazione, di arce bianche. Ancora un mondo del tutto artificiale ma brut, pieno di accadimenti, che si organizzano via via, ma spontaneamente, nello spettacolo Coucou Bazar, sempre più fantasticamente arricchito dal 1973 al Guggenheim di New York fino all'edizione torinese del 1977. La pittura, negli ultimi anni, diviene un poco ancella, ma anch'essa è «liberata», nel segno e nel colore: forse, alla fine, davvero e totalmente brut, di là d'ogni convenzione intellettuale c culturale. Davvero selvaggia, in questi anni di artificialissimi sclvaggiumi e graffiami. Marco roscj ■lean Dubuffet: «Deesse mère» (1945), tecnica misla su tela; a destra, «Personaggi di Coiicoii Bazar» formati in polistirolo

Persone citate: Baj, Dubuffet, Guggenheim, Jean Dubuffet, Klee, Picasso, René Drouin

Luoghi citati: Le Havre, New York, Parigi