MAGGIO DI QUARANT'ANNI FA COSI NELL'EUROPA SCOPPIO LA PACE di Fabio Galvano

Mosca, mille cannoni a festa MAOOIO PI QUARANTANNI FA; COSI' NELL'EUROPA SCOPPIO' LA PACE Mosca, mille cannoni a festa | Era una città spopolata: «Bambini, donne e malati erano stati sfollati» • Eppure quell'8 maggio la Piazza Rossa e le strade j intorno furono invase da una folla tumultuosa - «Chi non piangeva, cantava. Nei giardini pubblici si suonavano le fisarmoniche I e si ballava» • L'indomani tutte le chiese erano affollate - Inni a Stalin, fuochi d'artifìcio e «una cupola di luce sul Cremlino» I . DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MOSCA — «A ogni fermala del treno, mentre et avvicinava- ' ino a Mosca fra villaggi devastati e campi brulli, la gente ci prendeva di peso dalle carrozze. e ci lanciava in aria una, due, cinque volte; le donne ci abbracciavano e ci baciavano per ringraziarci e per festeggiare con noi una vittoria che era ormai nell'aria'). Boris Tcrnov — oggi operaio allo stabilimento autoniobilistico clic produce la Moskvich — era un soldatino di 23 anni, paracadutista addetto a un obice da 120, quando finirono per l'Urss i 1418 giorni della (grande guerra patriottica'). Tornava da Percmyshl, qucll'8 maggio 1945, c aveva ancora nelle orecchie d'inferno dei cannoni»: nella capitale l'improvvisa esplosione di gioia, turbata tuttavia dal ricordo dei 20 milioni di morti che quella vittoria era costata, lo abbracciò da eroe. Era il destino di ogni militare, in quei giorni. Sono passati quarantanni, una vita. Ma il tempo non offusca i ricordi di una Mosca nella morsa del dolore che quella primavera ritrovò la forza di vivere e, nel tripudio popolare, l'antidoto agli anni bui dai quali stava uscendo. «Alloggiavamo in treno, alla stazione Bclorusskij», ricorda Tcrnov, oggi con i capelli bianchi, la giacca appesantita da grappoli di medaglie. <Quando ci fu detto che la guerra era davvero finita, quell'8 maggio, uscimmo lutti dal treno. Ci abbracciavamo tra di noi, e ci abbracciavano i passanti». (•La fine del fuoco e della morto, ricorda commossa Litli I.opalina, giornalista di radio Mosca, nipote del rivoluzionario German Lopatin che fu amico di Marx, la quale aveva, allora 33 anni: «Sta mettendo a letto la mia figlia più piccola quando squilla il telefono nel corridoio ed entra di corsa l'altra mia figlia, di dicci anni: "Mamma, la guerra ò finita, c'è la capitolazione". Prende il cappottino e scappa di casa. Sento la porta sbattere, sbattere, sbattere, perche' tutti escono: si viveva in coubitazione, ogni famiglia aveva una stanza. Solo io resto, per la bambina piccola». E' quasi sera. «Le sei o le sette», ricorda Luigi Cecchini, un esule italiano che dal '32 lavorava ai servizi esteri di radio Mosca (oggi ha 83 anni) e che li aveva conosciuto la Lopatina. Tutti ad accendere la radio: a confermare la notizia, ogni cinque minuti, c'è la calda voce lamiliare di Jurij Levitai), lo speaker-principe, una sorta di simbolo dell'Urss in guerra. Da qualche mese Levitati dorme poco: vuole essere lui a dare tutte le notizie dell'avanzata sovietica: (Sonostato io ad annunciare la resa di quelle'città, spiega agli amici, e ora voglio essere io ad annunciare la loro liberazione». A mezzanotte a Berlino il generale Keitel avrebbe firmato la resa alla presenza di quattro alleati: l'unica riconosciuta dai sovietici, qui presenti con Zhukov e assenti invece alla resa di Jodl a Rcims. Un soldatino Nelle vie la gente impazzisce. E' una scena ben diversa dalla compostezza formale, dettata dal Cremlino, con cui due anni prima una folla con l'odio negli occhi aveva seguito il passaggio di 70 mila prigionieri tedeschi catturati a Stalingrado. ' Si dimenticano d'un colpo le mille tragedie familiari, la paura, il razionamento tuttora in vigore (400 .grammi di pane al giorno e, ogni mese, 400 grammi di car- ne, 200 di grassi, 200 di zucchero). «C'era un senso di fratellanza, un'atmosfera strana», ricorda la Lopatina: «Di eorsa dalla via Kirov, davanti alla Lubjanka, e poi verso la Piazza Rossa: tutta Mosca corre in quella direzione. I primi ad arrivare entrano nella piazza, gli alni sono.costretli a restare fuori. Quanti pianti di gioia, quella sera; ma anche quanta felicità per la nuova vita». Mosca e i moscoviti voltavano pagina: «Eravamo tutti emozionati, ricorda l'ex soldato Tcrnov. Chi non piangeva cantava. C'era festa dovunque: nei giardini pubblici si suonavano le fisarmoniche e si ballava, nelle vie si esibivano attori e cantanti dilettanti. E continuò così il giorno dopo, il 9 maggio. E poi nei giorni seguenti, perché arrivavano di continuo a Mosca i treni con i reduci: ci volle del tempo perché quell'euforia evaporasse». L'8 maggio 1945 era una giornata freddar ultimo graffio di un invernò sofferto; riia uh sole splendente avrebbe salutato Mosca l'indomani, per la grande parata sulla Piazza Rossa, per la festa con cui ancora oggi l'Urss celebra — il 9, non l'8 — la vittoria sulla Germania di Hitler. Quel mattino, un mercoledì, la Pravda esce con il grande annuncio: «Ixi grande guerra patriottica del popolo sovietico contro gli invasori tedesco-fascisti è terminata con la vittoria». Gli alleati, in quel momento, sono del tutto secondari. Un ukaz varato la sera prima dal Presidium stabilisce, per quello stesso giorno, la festa nazionale. Vedere oggi quei fogli ingialliti è come fare un emozionante tuffo nella storia, e la storia sovietica di allora ha il nome di Stalin: ecco un disegno in cui un soldato russo corre verso la vittoria sventolando la bandiera con l'effigie del dittatore ed ecco una poesia (autore M. Rylskij) che esalta «questo giorno regalatoci da Stalin» e che perciò tributa «gloria e lodi al.nostro caro Stalin». «Tutta Mosca era attorno alla Piazza Rossa, il centro della città era intasato, ricorda Boris Tcrnov. Ci abbracciavano, a vedere la nostra divisa, e poi di nuovo ci lanciavano in aria». Ricorda Luigi Cecchini: «C'erano in piazza un milione di persone, due, tre, non so. Sembrava che la gente fosse di gomma, tutti entravano. L'unico pericolo era per i militari, che venivano fatti volare in continuazione. Vicino a me c'era un soldatino, ferito a un braccio e uscito pochi giorni prima dall'ospedale. Mi diceva: ho partecipato a molti combattimenti, ma non ho mai avuto cosi-paura». Non fu il solo modo di celebrare la vittoria. In attesa della grande parata militare del24 giugno, quando alla presenza di Stalin 200 bandiere naziste furono gettate in spregio ai piedi del mausoleo di Lenin, ci fu chi quel 9 maggio preferì il silenzio. «Era una bellissima giornata di sole, ricorda la Lopatina. Fatti i lavori di casa, presi la bambina, che aveva otto mesi, e andai sulla scalinata del Bolshòj, che oggi come allora è un punto d'incontro per i veterani di guerra'. Al «Te Deum» Continua: «Non c'erano ancora fiori, ma gli alberi e i cespugli di lillà erano già verdi. Rimasi lì, in un momento stupendo dì raccoglimento: giornata gloriosa, a fianco delle donne, delle vedove e delle madri che attendevano. La sera ci sarebbero slati i fuochi d'artifìcio e 30 salve di mille cannoni, Stalin avrebbe parlato alla radio,. la notte di Mosca sarebbe stata forata dai fasci luminosi della contraerea che avrebbero formato, come scrisse la Pravda, "una cupola di luce sul Cremlino"; ma in quel momento, con la pìccola addormentala fra le braccia, pensando in ■ silenzio alla vittoria, cercai dì dimenticare tutti gli anni brutti che avevamo passato». Ci fu ressa alla cattedrale per il Te Deum, quel giorno. Tutte le chiese erano affollate: «Ilpopolo russo, afferma la Lopatina, è credente per tradizione, e la Chiesa aveva avuto un grande ruolo durante la guerra: non poteva quindi rimanere in disparte». La sera, poi, tutti sulla Piazza Rossa. La Russia con i suoi milioni di morti, quasi piegata tre anni prima dalle armate di Hitler, riviveva ora nella speranza del futuro, esaltava in Stalin il grande «Vozhd» («Duce», diremmo noi), si inebriava nel suo nuovo ruolo di grande potenza. «Nessuno voleva tornare a casa, parla ancora Boris Ternov, né quella sera né le sere seguenti». Sebbene risparmiata dai grandi bombardamenti che avevano invece raso al suolo intere città dell'Europa e della stessa Russia, Mosca — ricorda Litli Lopatina — era allora ama città spopolata: bambini, donne e malati erano stali sfollati, non tutti erano tornati». Eppure, quel 9 maggio, una folla compatta e a tratti tumultuosa le diede il volto delle grandi occasioni: «La vita riprendeva, anche se la gioia non poteva essere perfetta, dopo quattro anni di guerra durante i quali ogni famiglia aveva perso qualcuno». Il rigido razionamento, che rifletteva una disponibilità alimentare che era un settimo di quella del 1940, non consentì speciali elargizioni per celebrare là vittoria; ma quella sera, in una Mosca dove il potere d'acquisto del rublo era ridotto al 40 per cento dell'anteguerra c dove taluni generi erano rincarati di 18 volte sul «mercato parallelo», uscirono dalle dispense tutte le provvi- stc messe in serbo per la grande festa, compreso un fiume di vodka prodotto nelle distillerie caserccce. Cinema e teatri erano aperti, ma rimasero semivuoti perché la gente preferiva far festa nelle strade, vivere con gli amici e con la folla quei momenti indimenticabili. Fu davvero indimenticabile, quella serata: anche per i piccoli gruppi di alleati che si trovavano in quelle ore nella capitale sovietica. «Per gli americani e per gli inglesi, ricorda la Lopatina, c'era allora grande simpatia». Le-scatolclle-di carne, le uova ih pblvcrc.'V pacchi dono con scarpe e vestiti, avevano avuto un peso e (asciato un segno. L'indomani le foto di Churchill c Truman comparvero, sulla prima pagina della Pravda, accanto a un grande ritratto a inchiostro di Stalin; Eiscnhowcr, Montgomery e Alexander affiancarono Zhu- kov, Vasilevskij, Voroshilov, Timoshcnko, Budennyj, Konev, Rokossovskij e gli altri comandanti sovietici. Una foto «storica» della conferenza di Teheran (Stalin, Roosevelt e Churchill) in prima pagina, quella della firma della resa tedesca in quarta. E una piccola notizia, senza clamore: ricevimento a Mosca per Clementine Churchill, mentre il marito a Londra riceveva l'ambasciatore sovietico. Litli Lopatina ha gli occhi lucidi: «E' bello ricordare. Quarant'anni dopo, in un giorno di pace». Fabio Galvano Mosca, 8 maggio '45. Un soldato è lanciato in aria dalla folla Mosca, 8 maggio '45. Si balla nelle strade: «Il fuoco è finito, esplode la gioia» (Archivio «La Stampa»)