Quel giorno a Saigon

Quel giorno a Saigon Il 30 aprile di dieci anni fa le truppe di Hanoi entravano nella capitale sud vietnamita: un testimone racconta Quel giorno a Saigon Il frenetico sgombero sino all'alba con gli elicotteri verso le portaerei Usa - Il saccheggio dell'ambasciata e degli uffici americani - Il Nord aveva un piano per lanciare cento razzi su ciascuno dei trenta settori della città se il Presidente non si fosse arreso - L'annuncio alla radio: l'ex capitale si chiama Ho Chi Minh • Un governo provvisorio fantasma, la censura, le parate: la fine delle illusioni, la paura, i primi cadaveri restituiti dal mare .NOSTRO SERVIZIO La mattina di mercoledì 30 aprile 1975 tutto quello che restava qui della grande America era la martellante macchina dell'informazione che rimandava l'eco della sua sconfitta. L'ambasciata di Graham Martin è saccheggiata, i carri armati del Nord hanno raggiunto i sobborghi di Saigon, ma negli uffici dell'agenzia Upi gli operatori, imperturbabili, continuano a battere al telex in lingue che non conoscono gli ultimi articoli degli inviati speciali. Che fanno a gomitate, e a ragione. Come era prevedibile, prima preoccupazione dei vincitori sarà interrompere le comunicazioni. Saigon, in prima pagina su tutti i giornali del globo, diventa all'improvviso una città isolata. Verso le 8 vedo partire gli ultimi elicotteri, di tanto in tanto bersagliati dai soldati del Sud, furibondi nel vedersi abbandonati dagli ex alleati. Lo sgombero del vietnamiti classificati come enàajigered è andato avanti per tutta la notte. All'inizio, gli incendi erano le uniche fonti di luce nei centro senza elettricità. Poi, gli elementi si sono accordati con gli uomini. Fulmini lunghissimi solcavano il cielo. E a Saigon è incominciata un'agonia a misura della sua leggenda. Bengala arancione bruciano sui tetti piani per segnalare le aree d'atterraggio. I Chinook scendono precipitosamente, si riempiono di passeggeri tenuti a bada dai responsabili con la pistola spianata, ripartono verso le portaerei della Navy. Ci sono piloti sudvletnamiti che hanno dato a parenti e amici l'appuntamento di quest'ultima spiaggia sul tetto di un edificio. Quando tutti sono a bordo, l'ascensore viene fatto esplodere per dissuadere altri aspiranti alla fuga. In strada, il saccheggio continua. I poliziotti sono i primi a sfondare, in una specie di ebbrezza, le porte degli edifici abbandonati dall'America. Sono strani, questi due mondi l'uno al fianco dell'altro, fatti dello stesso popolo, ma assolutamente incompatibili: quelli che restano, e per i quali il «recuperare» è un modo per abituarsi alla penuria del comunismo; quelli che tentano di andarsene, e si dimostrano disposti a tutto per riuscirci. Dalla terrazza àcìVHoiel Caravelle, osservatorio dei giornalisti stranieri, quasi tutti giudichiamo deliranti queste scene di «panico». Ma chi può sapere che questi «pazzi» che se ne vanno con una ventiquattr'ore per bagaglio verso la Midwap o YEnterprise. al limite delle acque territoriali, fra non molto saranno considerati dei saggi dai boat people costretti ad affrontare tempeste, squali e pirati sul Mar della Cina. Dopo l'offensiva del 9 marzo contro Ban Me Thuot, 3S0 km a Nord-Est di Saigon, il Sud Vietnam è perduto. Oli accordi di Parigi sono soltanto un pezzo di carta, le divisioni di Hanoi sono dilagate, spezzando l'ultima barriera a Xuan Loc. Le finestre si chiudono, negli alberghi ci si barrica. C'è 11 grande silenzio, prima del salto nell'ignoto. I giornalisti sono andati tutti al Dlnh Doc Lap, il palazzo presidenziale, quando è arrivato il primo carro armato e ha sfondato 11 cancello. Arrivano alcune auto, ne scendono degli ufficiali che salgono 10 scalone e aprono la porta dell'ufficio nel quale il generale Minh 11 aspetta insieme con alcuni ministri del governo formato il giorno precedente. Il generale Thieu si è dimesso il 21 aprile. Rifiutato dal nemico come Interlocutore attendibile, il vicepresidente Huong ha quasi subito consegnato «pieni poteri» all'ultimo presidente della Repubblica del Vietnam del Sud, rassegnato a ordinare la resa incondizionata. «Lei — dice laconico uno del vincitori al generale — ha reso un grande servizio al Vietnam impedendo la distruzione di Saigon. Grazie». Non sono parole al vento. I soldati del Nord, i bodoi, spiegano con un gran sorriso che, sé la resistenza fosse continuata, il piano di lanciare cento razzi su ciascuno dei trenta settori nel quali la capitale è stata suddivisa sarebbe stato messo in pratica, metodicamente. Quei bodoi sono sorridenti, cordiali, discreti, si direbbe anche timidi. La lunga guerra è stata tanto impietosa da una parte come dall'altra che l'assenza di esecuzioni sommarle è qualcosa di più di un sollievo. La sera, la popolazione ascolta l'ex emittente rivoluzionaria. E viene a sapere che "Saigon liberata porla ormai 11 glorioso nome di Ho Chi Minh». Il giorno dopo, sveglia di prima mattina. Oli abitanti di Saigon sono invitati a sfilare per la Festa del Lavoro. Altoparlanti diffondono dall'alba slogan e comunicati del Comitato amministrativo militare. Chi dirige il Vietnam del Sud? Il Grp (governo rivoluzionario provvisorio) è irraggiungibile. I giornalisti che durante il conflitto erano in contatto con i rivoluzionari del Sud ora trovano soltanto inerlocutori evasivi, sfuggenti. I messaggi lasciati sul biglietti da visita alla reception dell'albergo dove passa regolarmente la signora Binh, una volta cosi disponibile per la stampa, rimangono senza risposta. Cinque giorni dopo la caduta di Saigon, l'ambasciatore di Francia, Jean-Marie Mérillon, viene finalmente ricevuto da rappresentanti di Hanoi che non si degnano neppure di dire come si chiamano. Il 7 maggio viene inventata una piccola tortura asiatica. Gli inviati speciali devono sottoporre alle autorità i loro articoli, ma nessuno dice se c'è o non c'è censura. Si sa solo che i testi «passeranno da Hanoi», e non si danno garanzie sulla data di trasmissione. Lascio alla Posta centrale un «telegramma» di 15 cartelle. L'impiegata conta le parole, una per una. Otto giorni dopo, il nostro sgradevole compito è fare 11 resoconto delle «feste della liberazione» organizzate per l'85° anniversario della nascita dello «zio Ho». La popolazione è invitata alla parata di quei carri armati che avrebbero potuto sterminarla se il generale Minh si fosse «osti¬ nato». Vittoria. Ma dov'è questa •vittoria? I carristi con i guanti bianchi sfilano sui loro mezzi tirati a lucido davanti a una popolazione silenziosa. Solo gli altoparlanti e la cinque fingono per i cameramen venuti dal Nord. Dopo la relativa esultanza dei primi giorni, c'è ora una passività palpabile. E l'obbligo del censimento per 1 membri dell'esercito «fantoccio» non fa presagire nulla di buono. L'arcivescovo di Saigon, Nguyen Van Binh, e alcuni buddisti sono sulla tribuna delle autorità accanto a ufficiali pieni di decorazioni di tipo sovietico; ma in privato una parte del clero si dice preoccupata. Il 24 maggio, i giornalisti possono prendere l'aereo. E' un fuggi-fuggi. Rimango, per vedere come va a finire, a costo di restare in silenzio per un po'. Ogni tre giorni, al ministero degli Esteri viene alflsso l'elenco degli stranieri autorizzati ad andarsene. Circolano varie voci: presto anche i vietnamiti che vogliono lasciare 11 Paese potranno farlo; l'ex Saigon diventerà una zona franca aperta agli investimenti asiatici. Torna la speranza, ma poi ci si accorge che c'è un solo «statuto speciale» per il Sud. quello dell'eternità comunista. Burocrazia, scarsità di medicinali (cosi presto!), roghi di libri all'indice accesi da giovani irreggimentati, slogan moralizzatori all'ombra dell'onnipresente ritratto dello «zio Ho». Non so ancora quale tragico destino aspetti alcuni miei interlocutori che mi parlano con una tristezza infinita, ma al mio ritorno potrò già scrivere che il mare restituisce cadaveri L'amministrazione rivoluzionaria esige che paghi in dollari, e in ncssun'altra valuta, il biglietto di ritorno. Sull'aereo che alla fine di giugno mi porta a Vientiane i ricordi sfilano. Uno mi assilla: quello dei passanti che insultano i soldati mentre si disfano di armi e uniformi in un fosso di rue Tu Do. verso le 11 del 30 aprile. Il sussulto tardivo dei civili meritava un'altra risposta? Ufficiali del Sud si sono uccisi all'arrivo dei carri armati nemici, altri hanno combattutto sino alla morte nelle ultime sacche di resistenza. Ma chi tra i vivi poteva chiedere a un soldato di leva del Sud di morire per la Saigon della primavera del '75? Con altri leader, più capaci e meno divisi, appoggiati da un popolo più motivato e da un'opinione pubblica internazionale meno sensibile alle Illusioni dell'epoca, il Sud avrebbe retto? Si può guidare una battaglia giusta quando non si è giusti, e contro un nemico che certo tesse la propria sventura, ma con purezza? Domande oziose. La storia, si sa, non torna indietro. Jean de la Guérivière Copyright «Le Monde» e per l'Italia <<l.a Stampa» Mia v | Saigon. 1'.' il 29 Aprile 1975: con un elicottero l'ultimo, frenetico, momento dello sgombero

Persone citate: Graham Martin, Nguyen Van Binh, Thieu, Xuan Loc.