Un tè in casa Gorkij

Un tè in casa Gorkij Un tè in casa Gorkij questi scarni dati è tutta la storia e il miracolo della sua poesia (penso alle tre raccolte della maturità: Per la via del grano. 1920. La lira pesante. 1922. La notte europea, 1927). Nella scrittura di Chodasevic il progetto armonico e l'alta maestria tecnica, frutto di un rigido autocontrollo, si confrontano con un sentire ormai profondamente intaccato dalla coscienza del vuoto, dalla certezza di un'inesorabile disgregazione del reale, di una spaventosa frana nell'integrità dell'essere. E il demone del dubbio corrode dall'interno la materia poetica, che si screpola in cadenze prosastiche di una strisciante trivialità confinante col sublime ed è ormai interamente proiettata nella vicenda lirica del nostro secolo. Temperamento saturnino, afflitto da mille e atroci malattie reali e da un'ancora più atroce e paralizzante nausea del quotidiano cui la realtà sovietica post-rivoluzionaria avrebbe perfidamente offerto nuove, validissime motivazioni, tenero amante di gatti e feroce nemico (con pochissime eccezioni) degli esseri umani, introverso, distaccato, malinconico, talvolta cinico, eternamente sospeso tra il desiderio della passione e la necessità dell'ironia, sempre ammaliato dal cupo sorriso del silenzio, Chodasevic ebbe in sorte di rappresenta¬ re, insieme a Marina Ci'etaeva e poche altre voci, la poesia russa al bando. Nell'impossibilità — ormai fisica, corporea — di scrivere versi, accanito dal vuoto spirituale e dalla povertà materiale, continuò tuttavia a difendere con un disperato ottimismo pubblico la possibilità stessa dell'esistenza di una letteratura esule nella nuova patria matrigna. A coltivare la speranza, sempre più tenue, che la terribile diaspora non •dissipasse, i suoi poeti come la nera notte sovietica, anche se la sua esperienza sembrava dimostrare il contrario. Ma all'afasia poetica Chodasevic volle contrapporre un tenace e prezioso lavoro di critico e memorialista. Lo scrittore arriva ora al pubblico italiano con il suo Necropoli, pubblicato a Bruxelles nel 1939 e in prima traduzione mondiale da Adelphi. E' un lucidissimo e affascinante ritratto della cultura russa dei primi decenni del nostro secolo: una cronaca per nulla patetica e mai sfiorata dalla nostalgia del temps perdu, un racconto in cui trionfa, incontrastata, l'intelligenza (umana e letteraria), un collage di ritratti dal vivo (Brjusov, Belyj. Blok, Gumilev. Sologub. Esenin, Gor'kij.../ dove il rigore del testimone a futura memoria è inondato dalla tiepida e umanissima luce della pietà e della rabbia. Serena Vitale Maxim Gorkij con Leone Tolstoj a lasnuia Poliana (190S) valo da Astrachan'. All'inizio non capii cosa lo turbasse tanto e dissi che anche a me era capitalo di pranzare sui battelli del Volga ormeggiali alla banchina. «Ma questo quando devono ancora partire!» si mise a urlare (Dopo la corsa il buffet è chiuso! Queste cose bisogna saperle!». E' morto di polmonite. C'era indubbiamente un legame ira la malattia di cui morì e il processo tubercolotico che in lui si era manifestato in gioventù. Ma la tubercolosi era siala curata e guarita quarant'anni prima, e se ogni tanto si faceva ricordare con tosse, bronchiti e pleuriti, non si trattava tuttavia di fenomeni cosi gravi come si scriveva in continuazione e come pensava il pubblico. In generale Gor'kij era forte e pieno di energia —- non per niente è vissuto fino a sessantotto anni —. Da tempo profittava della leggenda della sua grave malattia ogni volta che non voleva andare da qualche parte o quando, al contrario, aveva bisogno di andarsene da qualche parie. Col pretesto di un improvviso aggravamento evitava di partecipare a riunioni o di ricevere visitatori importuni. Ma a casa, davanti ai suoi, non amava parlare della malattia, anche quando ne soffriva realmente. Sopportava il dolore fisico con ammirevole coraggio. A Marienbad gli castrassero dei denti, rifiutò ogni forma di anestesia e non si lamentò neppure una volta. Un giorno, ancora a Pietroburgo, viaggiava su un tramai stracolmo, reggendosi sullo scalino più basso del predellino. Un soldato, saltando sul tram in piena corsa, gli pestò violentemente un piede col lacco ferrato e gli fratturò il mignolo. Gor'kij non ricorse neanche al medico, ma dopo questo episodio per quasi tre anni si dedicò reii tanto in tanto ad una strana occupazione serale: tirava fuori dalla ferita le schegge d'osso con le sue stesse mani. GLI piacevano tutte, decisamente tulle le persone che portavano nel mondo l'elemento della rivolta, o anche della monelleria — fino ai piromani, sui quali ha scritto molto e dei quali era sempre pronto a parlare per ore intere. Anche lui era un pochino piromane. Non l'ho mai visto spegnere un fiammifero dopo aver acceso la sigaretta: lo gettava sempre via ancora acceso. Una sua prediletta consuetudine era quella, dopo pranzo, o durante il tè della sera, quando il portacenere era ormai colmo di mozziconi, fiammiferi, pezzi di carta, di gettarci un fiammifero acceso. A quel punlo cercava di distrarre l'attenzione di chi gli slava attorno, ma continuava a voltarsi per gettare occhiate maliziose al piccolo falò. Questi «incendi domestici», come una volta io gli proposi di chiamarli, sembravano avere per lui un qualche significato simbolico cattivo e gioioso. Aveva un grande rispetto per gli esperimenti di scissione dell'atomo: spesso diceva che se fossero riusciti, da una pietra raccolta per strada, per esempio, si sarebbe potuto estrone una quantità di energia sufficiente per le comunicazioni interplanetaria;. Ma ne parlava in un modo noioso, per citazioni, come se lo facesse solo per poter aggiungere alla fine, ormai allegro e insolente: <«Un bel giorno questi esperimenti, hm, sì, capite, potranno condurre alla distruzione del nostro universo, quello si che sarà un bell'incendio». E schioccava la lingua. Dagli incendiari, attraverso i magnifici banditi della Corsica che non ebbe mai occasione di conoscere, il suo amore scendeva fino ai falsari, cosi numerosi in Italia. Gor'kij faceva lunghi e dettagliati racconti su di loro: una volta era andato a trovare una specie di loro patriarca che viveva ad Alassio. Dopo i falsari venivano gli avventurieri, i furfanti e i ladri di ogni calibro e risma. IL suo atteggiamento verso la menzogna e i mentitori era, per cosi dire, sollecito, premuroso. Non l'ho mai visto smascherare qualcuno o denunciare una menzogna — anche la più sfacciata e insostenibile. Era realmente credulo, ma in più fingeva di esserlo. In parie gli dispiaceva mortificare i bugiardi, ma soprattutto riteneva suo dovere rispellare l'impelo creativo, o il sogno, o l'illusione, anche quando tulio ciò si manifestava in forme estremamente meschine e ripugnanti. Più di una volta mi è capitato di vederlo contento di essere stato ingannato. Per questo non era difficile ingannarlo e perfino renderlo complice dell'inganno. Non di rado a lui stesso capitava di mentire. Lo faceva con sorprendente noncuranza, come se fosse convinto che nessuno potesse o volesse coglierlo in fallo. Vladislav !•'. Chodasevic

Persone citate: Astrachan, Belyj, Blok, Esenin, Gorkij, Leone Tolstoj, Maxim Gorkij, Serena Vitale Maxim, Sologub

Luoghi citati: Adelphi, Alassio, Bruxelles, Corsica, Italia, Pietroburgo