L'Iliade non è un plagio ma ha le radici nella storia ittita

Lo studioso di Ebla e le ultime scoperte di Omero Lo studioso di Ebla e le ultime scoperte di Omero L'Iliade non è un plagio ma ha le radici nella storia ittita poema greco dell'Iliade e dei suoi personaggi. Un dibattito alle volte violento che ha fatto schierare gli esperti su due fronti irriducibilmente in lotta fra loro, e ha dato luogo ad una bibliografia quanto mai vasta, destinata ora, con la dichiarazione del linguista della Harvard, ad allungarsi ancor più. I* premesse per la riscoperta storica di alcuni personaggi dell'Iliade sono già insite nel racconto del cantore greco: la descrizione accurata della città di Troia e la caratterizzazione dei personaggi facevano ben sperare che un giorno forse se ne sarebbero ritrovate le tracce nella documentazione cuneiforme che cominciava ad affiorare dagli scavi tedeschi nell'antica capitale degli Ittiti, Hattusa, l'odierna Boghaz-koi vicina ad Ankara, la capitale della Turchia. Quando poi in Stefano di Bisanzio si leggeva che Paride si era rifugiato assieme alla moglie Elena presso un potente re locale chiamato Motylos, allora le .aspettative per una eventuale conferma storica dei poemi omerici erano più che giustificate. Ed ecco che nel 1924 lo studioso tedesco E. Forrer pubblica due studi, in cui si propone di identificare i Greci con il popolo menzionato nei tesi ittiti con il nome di Ahiyawa: «Vorhomerische Griechen in den keilschrifttexten von Boghaz-koi» e «Die Griechen 3 .'.Vvi';:: La porta dei leeoni di Hatrusa, antica capitale ittita o a rt a nte ne da a il a Abbiamo chiesto un intervento sul problema al massimo esperto italiano in materia, il professor Giovanni Pettinato, ordinario di assirologia all'Università di Roma, già docente di lingue orientali antiche nelle Università di Heidelberg e Torino. Pettinato è lo studioso che ha decifrato la lingua semitica in cui sono scritte le tavolette cuneiformi scoperte a Ebla in Siria dalla missione archeologica dell'Università di Roma e ha già pubblicato cinque volumi con l'edizione di tali testi. L'Iliade sarebbe stata scritta cinquecento anni prima in un'altra lingua? La domanda nasce dalla scoperta del professor Calvert Watkins, un docente della Harvard, che ha decifrato due versi di un testo scritto in Invio, tramandato dagli Ittiti, riecheggiante frasi del poema di Omero. «La Stampa» ne ha dato ampia notizia in due servizi da New York, intitolati «L'Iliade, una storia vera riscritta 500 anni dopo?» e «Parla il linguista Usa che dice di aver scoperto la vera Iliade». TUTTI noi abbiamo certo studiato l'epopea degli Achei e dei troiani attribuita al cieco Omero, abbiamo seguito con trepidazione le vicende della decennale guerra tra la confederazione greca e la città di Troia, ci siamo entusiasmati per le gesta di Achille ed Ettore. E il ricordo dell'Iliade è rimasto per sempre impresso nella nostra mente, come pure quello del gesto insensato compiuto da Paride, il rapimento cioè della bella moglie di Menelao, Elena, che provocò la guerra micidiale conclusa con la distruzione di Troia. Non c'è da meravigliarsi quindi che notizie come quella della identificazione di Troia ad opera dell'archeologo Schliemann, oppure questa ultima dello studioso americano ci coinvolgano emotivamente. Farsi un'opinione sulla validità o meno della scoperta del Watkins, prima che i risultati della sua ricerca siano comunicati agli studiosi, non è impresa faci¬ le, né le informazioni estratte dalla sua intervista al New York Times ci sono di un qualche aiuto.'Ma può essere opportuno fare il punto sulla situazione dei nostri studi, i cui risultati sono relegati in opere scientifiche di difficile consultazione e quindi per lo più sconosciuti al pubblico. Da sessanta anni a questa parte il mondo degli studiosi delle civiltà anacoliche ha vissuto momenti di acceso dibattito attorno al tema delle origini storiche del Nuovo giallo italiano: «Questione di tempo» della Cagnoni y «Concerto Rosso,», 4Ì3eA>oUo:;; in den Boghazkoi-Texten». I testi ittiti, la cui decifrazione procedeva speditamente, non solo rivelavano la presenza degli «Achei., ma ricordavano pure un personaggio dal nome Piyamaradus, un re locale della Ionia in contatto con i re degli Ittiti e degli Achei, subito identificato con Priamo, il vecchio re di Troia, ed inoltre due nomi di città, Wllusiya e Tarulsa, subito riconosciuti come Ilio e Troia, i due nomi della capitale dell'omonimo regno assediata ed espugnata dagli Achei. Ma le scoperte non si fermavano qua: tra i documenti ittiti veniva individuato il testo di un trattato siglato dal re ittita Muwatalli e dal suo vassallo Alaksandu di Vilusa, quindi Alessandro di Ilio, subito identificato con Paride, figlio di Priamo, il cui secondo nome era appunto Alessandro. Le iscrizioni ittite confermavano le giuste aspettative degli studiosi, in quanto documentavano la presenza degli Achei in Anatolia a cominciare dal 1450 avanti Cristo e menzionavano due personaggi principali dell'Iliade, Priamo e suo figlio Paride, oltre alle città di Ilio e Troia. La datazione dei documenti in cui compaiono Priamo e Paride, rispettivamente 1349-1315 e 1315-1290, corrispondenti ai periodi di regno di Mursia n e Muwatalll, colloca i due personaggi in un preciso contesto Arte ittita, statuetta bronzea kunden», dove si negano documentatamente tutte le identificazioni proposte in precedenza: gli Achei non possono essere i Greci, Priamo e Paride non possono essere gli omonimi personaggi dell'Iliade, Troia ed Ilio vanno localizzate in posti diversi dalla Troia dei poemi omerici. Negli anni successivi gli studiosi si dividono in due campi; gli assertori delle tesi del Forrer e convinti sostenitori delle critiche del storico che costringe ad anticipare la data della distruzione di Troia di almeno due secoli. Ma come succede spesso negli studi, anche le cose più ovvie vengono contrastate con argomenti alle volte validi, ma non raramente anche speciosi. Nel 1932 arriva puntuale la smentita più clamorosa delle tesi del Forrer ad opera di un altro studioso tedesco, F. Sommer, nel monumentale lavoro «Die Ahhijava-Ur- Incontro con il fotografo: una mostr MILANO — Eccolo il •concettuale: l'ambiguo del •vero e falso», il •geometra*, l'antistoria, antiuomo ed antinatura: il fotografo sul quale i critici hanno esercitato il loro più difficile linguaggio •cntichese: Ed è un emiliano sui quarant'anni nato e vissuto tra Scandiano e Sassuolo, che quando ha dovuto abitare qualche anno a Modena, in città, soffriva e si è sentito di nuovo libero solo andando a isolarsi a Formiggine, poca strada dalla via Emilia verso le colline. Luigi Ghirri — è lui — compone fotografie trasparenti, quiete, ragionevolmente tiepide. Riconoscibilissime, le sue foto apparentemente sventagliate in tutte le direzioni sono foto irriconoscibili: dovesse sparire il suo nome, gli storici futuri della fotografia avrebbero un bel daffare ad attribuirle e riunificarle, tante sono oramai le sue sequenze di curiosità, le sue immaginazioni di introspezione, le sue composizioni di paesaggi, il suo amore per gli specchi, i riflessi, i rimandi, i vuoti folti e lo spoglio abitato dei suoi spazi. Le cose delle cose, insomma, e le cose dentro le cose. Tante, ma come le lenti diverse che compongono poi l'unità di un obiettivo fotografico. Dire che il •critichese* Ghirri lo abbia subito suo malgrado, forse non è vero. Gli è servito, eccome, ad affermare una propria immagine ufficiale (•Ghirri è un'altra cosa; dicono anche quelli che si vantano -fotografi •all'antica', che rifiutano l'impassibilità del postmoderno) di •qualità-. Di grande ed internazionale