Delitti in vetrina di Luciano Gallino

Delitti in vetrina CRIMINALI E CRIMINOLOGI DELL'800 Delitti in vetrina La prima impressione che «lesta la mostra su «La scienza e la colpa» (aperta a Torino sino a metà giugno) è che la storia della repressione del crimine sia stata sino a poco più di un secolo fa una storia di arbitri, discriminazioni e crudeltà che alla nostra coscienza attuale sembrano non minori di quelli imputabili ai peggiori dei crimini. Torture ed esecuzioni sommarie, luoghi di detenzione orrendi e immensa disparità di pene a seconda che l'imputato fosse un membro delle «classi pericolose» che aveva leso un membro della classe dominante, o viceversa: pare essere stato questo il modo normale di amministrare giustizia ancor per diversi decenni dopo il crollo istituzionale éd\'ancien regime. Al confronto, pur con le sue storture c le sue tragiche lentezze, le persistenti disparità di trattamento e l'incapacità strutturale a far luce definitiva su certi crimini di natura latamente politica, il presente sistema penale, in un piccolo numero di società dell'Occidente e in poche altre, appare come una svolta sostanziale in direzione d'un progressivo incivilimento dei' processi intesi a comprendere, controllare e punire gli atti criminosi, da chiunque siano commessi. &volt»«r-ii cui presupposti ideologici e dottrinali furono posti in gran parte nel corso dell'Ottocento, e che il Novecento si è adoperato più per mettere in pratica che per innovare a sua volta dalle fondamenta. E tuttavia chi dubita che incivilimento vi sia stato, provi a immaginarsi d'essere accusato ingiustamente d'un grave delitto, e scelga — dopo aver visitato la mostra torinese •— se essere giudicato dalla corte d'un piccolo regno o principato italiano della prima metà del secolo scorso, o da un tribunale dei nostri giorni. Ma nella storia dei modi di definire e punire la colpa è anche possibile individuare alcune radici delle difficoltà che tuttora si incontrano, e che paiono anzi crescere, ove si tratti di fare adottare al maggior numero di persone dei comportamenti regolati da norme di valore universale, in luogo di comportamenti rego lati da interessi particolari, che privilegiano anzitutto il proprio benessere c quello della propria famiglia. La memoria collettiva ra giona e si modifica con estrema lentezza rispetto alle forme della socialità, alla cultura ed all'ordinamento giuridico. Ciò che appare lontano se si con tano gli anni, è storia di ieri nella memoria delle generazioni. Per secoli, la presenza del potere, fosse impersonato dal re, da un funzionario dello Stato o dal signore locale, si è manifestata soprattutto come sopruso, predazione dei frutti del lavoro e conservazione delle strutture del dominio a fa vorc di pochi. La brutalità del sistema penale ne era l'espressione diretta. Sebbene i mutamenti del l'ultimo secolo siano stati immensi in direzione d'una con creta civiltà del diritto, per molti contemporanei l'atteggiamento verso la cosa pubblica, verso lo Stato in cui si concreta l'idea che esistono regole della convivenza che, quando siano generalmente osservate, assicurano una miglior convivenza per rutti e per ciascuno, anche se a spese di occasionali differimenti o rinunce d'un perseguimento immediato dei propri scopi egoistici, appare tuttora in flucnzato negativamente dalla memoria del potere come pri vilegio e ingiusto dominio che ha avuto modo di sedimentarsi per secoli nella coscienza collettiva. Memoria fatta non necessariamente di parole e messaggi formali, bensì di gesti, disposizioni, atti quotidiani, l'insieme dei microeventi che prima e al di là di qualsiasi scuola formano, tramite la famiglia e altri agenti significativi, gli strati profondi della mente umana. ★ * Dedicata primariamente a «crimini criminali criminologi» dell'Ottocento europeo, la mostra di Torino non effettua comparazioni con altre aree culturali, né con il nostro tempo. Tuttavia una comparazione è suggerita al visitatore, oltre a quella che vien naturale tra due stadi del sistema penale. L'Ottocento guardava al'autorc di un atto criminale come a un individuo del tutto diverso dal normale, e cercava nel suo corpo e nel suo cervello le caratteristiche che spiegassero il suo atto, secondo i criteri di corrispondenza tra causa ed effetto propri del pensiero positivistico. L'uomo e la donna delinquenti sono particolari tipi antropologici — un'idea che Cesare Lombroso porrà alla base della sua criminologia — e il compito della scienza sta nello scoprire in che modo le loro caratteristiche antropometriche e psicofisiche, che si dà per scontato abbiano una base anatomica e fisiologica, differiscano da quelle degli altri. 11 nostro secolo ha adottato un'ottica affatto diversa, almeno in Occidente. Per gran parte di esso chi commette un delitto grave, un crimine, è stato visto tendenzialmente come il prodotto di condizioni sociali e culturali che lo hanno orientato, se non costretto, a perseguire scopi in sostanza legittimi, come un maggior benessere, con mezzi illegittimi; ovvero a porsi scopi illegittimi perché quelli legittimi gli sono preclusi dalla classe d'origine o da circostanze avverse. L'illegittimità viene punita, e anche duramente, ma il reo è considerato esso stesso una vittima di processi sociali al di fuori del suo controllo. Alcuni tra i teorici di quest'ottica hanno anzi affermato che molti crimini sono atti del tutto normali che una società definisce come tali per i propri fini di controllo sociale, e «criminale» è un'etichetta che si applica, con gravi conseguenze per esse, a persone incappate più o meno a caso nella rete dei processi di repressione dei comportamenti deviami rispetto alle norme correnti. Tale ottica è stata messa in difficoltà da molti fattori che rendono sempre meno plausibile, o condraddittoria, la nozione di crimine come pura1 etichetta. V'è stata la scoperta che anche i colletti bianchi, e non solo i proletari ed i marginali, commettono gran numero di crimini. La diffusione e la ferocia della criminalità organizzata, e del terrorismo, hanno fatto il resto. A queste categorie di soggetti di atti criminosi sembra incongruo concedere di deporre le proprie responsabilità sulla porta dell'ordine sociale. Ma se tale concessione viene negata loro, sembra difficile concederla ad altri, poiché ciò implicherebbe inserire nel sistema giuridico due nozioni opposte di responsabilità individuale, e anzi due diverse concezioni della natura umana. La cultura del nostro tempo sembra invece avere ormai accolto come ovvia l'idea che chi compie un crimine sia in genere un individuo affatto normale, del tutto simile a chi non ne commette,.,,,,che in determinate circostanze, quale che sia la sua posizione nella società, decide scientemente di infrangere le regole della convivenza a proprio vantaggio. Ciò che fa la differenza sono i valori che egli assegna a tali regole e ai propri vantaggi, un processo eminentemente culturale, che la cultura può modificare. Come tra normalità e follia, il confine tra; comportamento conforme alle regole e comportamento criminoso risulta così più sottile di quanto non vorremmo credere c sperare. Un'idea certo meno rassicurante di quella del criminale come mostro o come selvaggio, che rende però meno ineluttabile la presenza del crimine. Luciano Gallino Anonimo: «Il supplizio di Ravalllac» (Secolo XVII, Parigi, Musce Carnavalet, particolare)

Persone citate: Cesare Lombroso, Secolo Xvii

Luoghi citati: Parigi, Torino