Leopardi, dalla Provenza di Guido Ceronetti

Leopardi, dalla Provenza A COLLOQUIO CON UN SUO STUDIOSO FRANCESE Leopardi, dalla Provenza AVIGNONE — Mi piaceva l'idea d'incontrare uno che, come me, anzi dedicandogli molto più tempo e cure, da parecchi anni, di lontano, e straniero, vive in sodalizio non goffamente ranieriano ma acutamente critico, con Giacomo leopardi Ecclesiastes noster. Trattandosi di un italianista e insegnante universitario, il suo raggio d'interessi è esteso anche ad altri: Petrarca, Boccaccio, Machiavelli (notevole il suo commento alla Vita di Custruccio) e, caso raro, importante, Caterina da Siena; con uno speciale aggancio alla cultura siciliana, da Federico li a Lampedusa e a Sciascia. Un vuoto: Manzoni, che già è difficile, sempre più (per l'abbassarsi di due fondamentali tensioni, Stile e Morale) capire c riuscire ad amare in Italia; figuriamoci all'estero. Quanto a me, sono una navetta che va dall'uno all'altro... Leopardi è un amico di giovinezza che in vecchiaia, a poco a poco, diventa medico personale e ti siede accanto al letto, angelico, prendendoti amorevolmente le pulsazioni finché cessa tutto. E dove andrà, dopo, il fedele di Leopardi? Nel nirvana di Ruysch, infallibilmente. Suon dell'ora Così sono caia ad Avignone, a parlare di Leopardi con Georges Barthouil, leopardista atipico, esegeta scrupoloso ma non idolatrante, che di saggino in saggino ha dato vita a un suo Leopardi-non-dei-professori (pur facendolo da professore), lavorando in zone poco note, cucendo segmenti di psicologia trascurati, impressionando pellicola di materia vivente, con strumenti subacquei. Ha anche tradotto i Canti, che si ha certamente più difficoltà a mettere in ■francese che in turco. Le conversazioni sono fruttuose quanto più abbandonate al caso; conviene lasciarle guidare da lui. Avrei voluto parlare del tempo leopardiano e del senso che piglia, dilatandosi a tutta la vita e la poesia sua, il «suon dell'ora» che domina e conforta le Ricordanze. Ernst Jungcr, nel suo trattate-Ilo sull'Orologio a sabbia, rileva il contributo che l'evocazione delle ore vissute dà alla magia dei poemi, evocazione che sovente esiste in modo impalpabilissimo, creata dalla prescienza dell'ordine temporale, segno che distingue i poeti, facendoli antichi sempre (Baudelaire: «Je san l'art d'Ivoquer Ics minutes heureuses»). Il «suon dell'ora» non è quello della torre di Recanati, è un sortilegio evocatore dell'infinito temporale, che a differenza di quello spaziale {«Che fa l'aria infinita?»), invece di sgomentare, conforta medicando a tutti gli «assidui terrori». Quel verso, infatti, ripetendolo nei momenti di ansia, ha il potere di calmare. Per Barthouil il tempo leopardiano consiste tutto nell'attesa di essere felice, nel desiderio smisurato di «arcana felicità» personale. E' un'attesa religiosa di qualche evento straordinario: in questo senso, molto vicina al tempo delle visioni semitiche, bibliche e coraniche, in cui non c'è che attesa di un Giorno, di un'Ora, di una salvezza e di un castigo per i quali Dio ha fissato un frammento di tempo irripetibile. Ma la felicità aspettata, per Giacomo, non viene, e a partire da una certa data, 1819, dice Barthouil, l'attesa muore: la luna è caduta sul prato, il tempo si arresta, il futuro cessa di esistere. Anche il suicidio diventa superfluo essendo Leopardi già morto. Il tempo morto è quello della notte «Che l'altre etadi oscura» nel Tramonto della luna. C'è un tempo ancora più morto, addirittura abolito, nel coro delle mummie di Ruysch: «Che fu quel punto acerbo...». Era il tempo, la vita come tempo. La prescienza dell'ordine temporale in esseri come Leopardi travalica facilmente i confini del mondo visibile, il verso rende stranamente il suono della NonOra, mentre il «suon dell'ora» si dilata fino a comprendere l'assenza di ogni tempo, l'immobile presente sen^a più attesa. Quasi mi pareva una mia scoperta (ora mi ricordo che la devo ad Adriano Tilgher) la visione parallela di tempo abolito che è nel poema For Annie di Edgar Poe: «£ la febbre chiamata Vita è vinta, finalmente» {And the fever called Livingl Is conquered at last). Pura illusione mentale: una febbre che bruciando nel cervello {burned in my brain) lo faceva delirare {maddened my brain). Bella morte: uno scivolare nel sonno «dal cielo del suo seno» {From the heaven ti her breast). Nel 1849 le donne avevano ancora un seno, e paragonabile al cielo, pare incredibile! Anche la Morte l'aveva, ma già un po' futuro: «quel dì ch'io pieghi addormentato il volto/ nel tuo virgineo seno» {Amore e Morte). Chi sa se c'è questo carnale paradiso nell'evocato ideale «paradiso» del Pensiero dominante, v. 101? Barthouil fa una quantità di osservazioni interessanti a proposito delle due, per niente trascurabili, Canzoni Sepolcrali di Leopardi. Nella seconda, la morte è il «discorde accento» che annulla una musica paradisiaca (il paradiso del corpo, della bellezza femminile): la morte come «nota falsa» dice Barthouil, il cadavere buttato nel sepolcro è la cessazione del «dotto concento». Tuttavia, un'idea delle Sepolcrali, adatta al tema: perche, leopardianamente, e più filosoficamente, è la vita stessa, è «il suon dell'ora» la nota falsa, l'interruzione del paradiso del non tempo, della condizione «lieta no, ma sicura» da cui un colpo cicco della Necessità ci strappa, noi povere mummie. Barthouil segue questo suo filo nella traduzione, interpretando «un discorde accento» come «la dissonarne»: così il male è fatto nascere dalla musica stessa, da una caduca dello strumento. II testo è più vago: l'interruzione della musica può provenire anche da una causa esterna. Restando alle Sepolcrali, il mio interlocutore ci vede un rifiuto viscerale della morte, di tipo ossessivo, con un fondamento nella sessualità, insieme causa e ripiego, soluzione. Quando l'analisi si fa psicanalisi bisogna essere molto cauti; diffido d'istinto, anche se un po' attirato. Siamo subito alla «persuasione nevrotica» come fonte di sentimenti umanissimi e nobilissimi, ma di rari spiriti. Leopardi non va confuso tra i nevrotici senza volto delle casistiche cliniche: è Altro. Mi sentirei diminuito se lo introducessi nella relatività di uno schema (come fanno quei balordi di marxisti e storicisti, che sognano di un Leopardi progressista, battistrada delle loro idee fisse), se non lo distinguessi come Unico tra i carnai c le ceneri fumanti dei casi. La madre Parliamo della madre. Barthouil non giudica troppo duramente l'Adelaide Antici, e ne corregge l'immagine di spavento. — A Giacomo non mancò ht'rnadre, anzi ne'tbbe due, Adelaide e Monaldo, lui è la vera mamma, amorosa fino alla soffocazione, una vera chioccia gelosa... Tanto gelosa di Giacomo da fare ogni sforzo per tenerne lontana Adelaide, essere lui solo a occuparsene. Monaldo si è come frapposto tra i due... A Giacomo, tenuto eccessivamente in braccio da Monaldo, restò sempre il desiderio di una vera madre... —. In tutto, non scrisse alla madre che tre o quattro lettere, brevi e fredde. In una da Roma, del 2} gennaio 1823, in un atto cerimoniale passa come un doloroso brivido: «Le bacio la mano, il che non potrei fare in Recanati». Circa il famoso ritratto della «madre cristiana» nello Zibaldone (p. 309 voi. I dell'edizione Mondadori), che pregava per la buona morte dei suoi figli malati piuttosto che curarli, Barthouil nega che si tratti di Adelaide, indicandone la fonte in una storia dei beati di Foligno che è nella biblioteca di Monaldo e in un passo cateriniano del Dialogo. i Tuttavia Giacomo ne parla come di persona a lui ben nota: «lo ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa...» e poi passa alla descrizione appassionata della sua mostruosità e di come la ragione, coi suoi freddi principi, non generi che mostri. 11 passo è filosofico, e il modello letterario può ben essere medievale: resta che, giustamente o no, Giacomo vede questo mostro cristiano col volto di sua madre. Monaldo, col suo affetto pasticcione, non poteva da solo cancellare certe impressioni infantili di timore per una madre vista essenzialmente come spauracchio del peccato d'amore: non sarà sfuggito a Barthouil che la mostruosità della «madre di famiglia» cristiana serpeggia nelle Canzoni Rifiutate (Per una donna inferma, Nella morte di una donna) con perfetta adesione di Giacomo all'idea «la morte ma non peccati». Dovette fare un grave sforzo per liberarsene e vederci una barbarie della ragione. Un'umanità imbarbarita, anziché illuminata, un mondo incendiato dalla ragione nemica della natura è stata ben veduta e intraveduta da Leopardi; ma tra le sue angosce non ha posto quella speciale verso il futuro — il nostro oggi — che occupa gran parte del senso del tempo dei poeti successivi, nuovi veggenti e interpreti orfici di segni. (Qui è importante il vuoto italiano: nessun poeta del XIX e del XX secolo di lingua italiana ha avvertito il demoniaco divenire della civiltà, la sua metamorfosi in orrore puro). Leopardi, osserva Barthouil, vede nel moderno la stupidità (per lui statistica, economia, macchine sono cretinerie) non rèlementct-catastrofico, la distruttività; l'urbanismo industriale futuro non poteva immaginarlo, non avendo conosciuto che città come Firenze e Roma, e una Napoli borbonica cenciosa e colerosa ma non disumana. Allora come mai lo si sente così vicino, così onnicomprensivo direi, se questa sua poesia e pensieri non hanno, parrebbe, nulla a che fare con questo mondo del mutamento ossessivo, disperato di essere senza speranza? Perché chi pratica la lingua italiana ne prova bisogno e ne riceve sollievo? Tenterò un giorno di dare a questo una risposta, e non da storia letteraria, perché il male è estremo e l'anima ha sempre più sete. Barthouil mi dà una risposta che non arriva a soddisfarmi, però bella e poetica: — Leopatdi è attuale e amato perché piace il suono delle sue lacrime — Guido Ceronetti