Fantasmi nel villaggio degli zar

Fantasmi nel villaggio degli zar RIGONI STERN: RITORNO IN URSS, QUARANTANNI DOPO Fantasmi nel villaggio degli zar Presso Leningrado, vìsita a Carkojc Selo, cioè a Puskin, come si chiama dal '37: ecco la casa di legno del poeta e il liceo in cui si formò - Sulla linea di resistenza ai tedeschi - «Quanti miei compagni sono rimasti laggiù tra il Don e il Donec» • Ricordi di Dostoevskij e deH'«Idiota» al palazzo di Pavlovsk, saccheggiato dai nazisti e riportato all'antico splendore dopo un lungo restauro KIEV — Ogni mattina prima di affrontare il vento freddo die scende dalla Caretta, facciamo una abbondante colazione. Oltre al solito tè e al caffè molto annacquato abbiamo a disposizione uova sode, salame, carne, formaggio, burro, aringhe, palate lesse, cetrioli e zuppe di orzo, di cavoli e una buona minestra di miglio e latte a cui ì finlandesi aggiungono inolio zuccliero. Durante la colazione, che è self-service e al prezzo fisso di due rubli, programmiamo la giornata; e una mattina sono felice quando Juri mi propone una gita fuori città: a Puskin e a Pavlovsk. «Lungo la strada, mi dice, si potrà vedere la balca che segnava il fronte tra tedeschi e russi. Nella visita ci accompagnerà una signora, guida deH'Inlurlst che parla italiano... Un tempo questa gita i nobili e t signori di Leningrado la facevano con le slitte o in carrozze e tante avventure e tanti intrighi avvenivano tra questi e quei palazzi. Saari era un villaggio le cui anime, i campi e i boschi erano di proprietà di un principe che ne fece dono a Pietro il Grande; diventò, alloro, Carkoje Scio: il villaggio degli zar e qui, nel liceo che Alessandro I aveva istituito per i giovani della nobiltà clic più si distinguevano, studiò e si formò poeticamente Aleksandr Sergeevic Puskin. Per questo, dal 1937, il nome del luogo è Puskin, semplicemente; e la sua casa di legno vi è amorosamente conservata. Prendiamo la strada per Polkovo, passiamo larvo che ricorda la vittoria contro i turchi e poi il monumentomusco clic ricorda quella contro i tedeschi; dopo la deviazione per l'aeroporto due cannoni anticarro puntati a Ovest segnano la linea di resistenza e il punto estremo della difesa. Ecco la balca ai cigli della quale si fronteggiavano le linee; pochi cespugli e neve. Ma posso ben immaginare come era qui dall'inverno 1941 all'inverno 1944. Faccio fermare l'auto e salgo la piccola collina: sotto la coltre di neve mi pare di intravedere ricoveri, trincee, postazioni, fossi anticarro e tanti soldati morti. E il cuore mi si stringe pensando a quanti mici compagni sono rimasti cosi, laggiù tra il Don e il Donec. Eppure la poesia vince il dolore perché entrando nel villaggio di Puskin. tra le case e i giardini coperti dalla neve, vedendo la sua casa, mi tornano confusi alla memoria alcuni versi dell'Onegin: «...Tatjana, desta / Di buon mattino, dalla finestra / Vide la corte imbiancata... inargentati gli alberi... un manto invernale lucente... tutto splendente». Ma forse io faccio confusione perché mi soccorre la nostra guida che dice altri versi in russo; e la loro musica è struggente come canto di usignolo. Ne! giardino del liceo vi è la statua di Puskin studente tra un silenzio di neve e di alberi: «...Non v'è ritorno ai sogni e agli anni i Né si rinnova cuore e mente...». Un poco più in là vi sono l'Aìeksandrovskij Park e il Grande Palazzo di Caterina progettato dal Rastrelli: il colore azzurro delle rientranze, il bianco delle colonne, i fregi dorati, la maestosità della mole tra il candore dell'inverno e il geroglìfico degli alberi contro il ciclo ne fanno un lungo suggestivo e incantato. Ma in questa stagione, come un tempo, il grande palazzo è chiuso ai visitatori e in esso manca il fumoso -Gabinetto d'ambra* di valore inestimabile che i tedeschi asportarono nel 1942 e che più nessuno ha ritrovato. Anclic Pavlovsk è una immagine da riporre nella memoria e ricordare per il suo fascino; fu dono di Caterina II al figlio Paolo. A costruire il palazzo furono i soliti architetti italiani che misero poi anche mano nel parco all'inglese; durante l'occupazione era sede del coniando tedesco che assediava Leningrado, venne ridotto peggio di una stalla e quasi distrutto. Per buona fortuna tutte le opere d'arte e ì mobili di grande pregio vennero salvati in un sotterraneo che fu muralo; ora, dopo quasi quarantanni di meticoloso e mirabile restauro, il Palazzo di Paolo è ritornato all'antico splendore: ogni cosa è stata riposta o rifatta com'era e in ogni sala c'è una fotografìa che documenta come l'allevano lasciata gli invasori nella primavera del 1944. Il rosa, l'azzurro, il giallo sono i colori che rendono armonioso l'insieme; nelle sale ricchissime di fregi d'oro, di marmi, di pavimenti intarsiali con legni preziosi sono raccolte opere d'arte, statue dell'antichità greca e romana. Ma, per me, ancora più bello in primavera dovrebbe essere l'esterno con il disgelo che fa germogliare le betulle e le acque della Slav'anka che rispecchiano i padiglioni, i tempietti e ponti, alberi, cielo. E' qui a Pavlovsk che Dostoevskij ha ambientato gran parte dcllJcìioia; «Un libro consolante e vivificatore come pochi altri venuti dopo il Vangelo», scrisse lA;one Ginzburg. Il ricordo del principe Myskin, di Rogozin, di Kolia. di Nastàsia Filìpovna, delle tre sorelle Epàncln (di cui, penso, tutti i lettori si siano un po' innamorati) sembra restare in questi luoghi. Quasi mi viene da guardarmi intorno come se doi'cssi incontrare qualcuno di questi personaggi, o vederli camminare per queste strade innevate, o sentirli parlare nelle case o sulle terrazze come li sentiva Dostoevskij mentre li creava, li nella sua stanza. Quando all'aeroporto di Leningrado sosteremo in lunga attesa di un acreo che ci dovrebbe portare a Stalingrado, più e più volte mi verrà da pensare a Pavlovsk; ma non ai palazzi e al paesaggio, bensì a quella sensazione misteriosa suscitata dal ricordo dell'Idiota., romanzo letto e riletto negli anni del dopoguerra. qua7ido era così difficile riprendere a vivere. Stalingrado Sopra ho scritto di proposito «aereo per Stalingrado» e non «aereo per Volgograd»; per chi ha fatto qui la guerra, ma anche per chi ha vissuto quegli anni, il nome non può cambiare. E non c'entra Stalin! Ora. qui in Urss, in occasione dei festeggiamenti per il quarantesimo anniversario della tnttoria e della pace sembra che i veterani vogliano proporre ufficialmente il ripristino del nome di quella città. E quando negli incontri con storici o militari o reduci, parlando di allora dico «Stalingrado» loro mi guardano un po' stupiti; qualcuno anche mi corregge, ma un giorno uno di loro che parlava perfettamente l'italiano esclamò ridendo: «...e vada per Stalingrado!». Insomma dopo ore di attesa tra tanta gente che aspettava di andare a Sud: uzbeki, tatari, kazakhi, e altri che aspcttai'ano di andare a Nord: finnici, svedesi, lapponi, quando venne notte tarda dovemmo rientrare all'albergo pcrdié una bufera di neve impediva gli atterraggi negli aeroporti. La mattina dopo la cosa si ripete. Vicino e noi bevendo vodka e fumando sigarette americane c'era in attesa un gruppo misto di finnici, una signora mi raccontò die erano stati al Sud, a Baku sul Caspio e a TVilisi in Georgia, ma che invece del sole e del caldo sognati trovarono freddo e bufere di neve. Questo, concluse, è un inverno proprio malto! Nella bufera Mi sembrava che le ore di attesa all'aeroporto di Leningrado fossero rubale al mio tempo e ai miei desideri, ma ora, ricordandole dopo qualche giorno, debbo dire che furono piene di curiosità per i tanti tipi umani che vedevo intorno; erano pochi e dispersi i turisti occidentali (e poi gli aerei per l'Occidente erano regolari) ma tanti i cittadini delle cento nazionalità dell'Urss, e tra questi contadine con ceste e sporte come da noi un tempo nei giorni di mercato alle autostazioni delle corriere; madri con bambini, vecchi con caffettani, soldatini impeccabili die sorridendo cercavano di dare una mano a chi aveva bisogno, studenti. E tutti dimostravano grande pazienza e sopportazione agli inconvenienti dell'attesa; cosi andw a me l'enne da ripetere la parola magica die dicevamo in prigionia nei momenti neri: nicevò, non è niente. Alla fine invece di prendere l'aereo per Stalingrado dove la bufera di neve non at'ct'a pausa, dopo quasi una piornata die si aspettava, Juri combinò di indirizzare il nostro viaggio per Kiev, che aurebbe donato essere la tappa successiva, e prendemmo il primo volo per quella città. Sotto di noi tutto era bianco e a fatica si potevano distinguere le città e i corsi d'acqua; le unidie cose che si potevano ben riconoscere erano le macchie dei boschi, forse perché il vento aveva scosso via la neve dai rami. Ancìve a Kiev nevicava leggermente, ma era meno freddo che a Leningrado e a Mosca, e l'indomani sarebbe stata una giornata tutta nostra, senza impegni, e poi era la domenica delle elezioni. Quando fummo al caldo dell'albergo, davanti a una bella cena composta da aringhe e patate lesse, chiesi a Juri. «Domani andrà a vota-re anche Cernenko?». Rima-' se molto stupito della mia domanda' «E' la prima volta, rispose, che mi chiede di Cernenko e mi chiedevo come mai non l'avesse fatto subito. Tutti gli occidentali che vengono qui e con i quali noi abbiamo rapporti di stampa ci chiedono sempre e subito de) Segretario. I giornalisti a Mosca vogliono sapere anche quante volte sternuta». «Domani, dissi, tutti i giornali occidentali e i politici aspelleranno la sua immagine alla televisione, i medici faranno le diagnosi guardando la (otografia. Ma se anche dovesse cambiare Cernenko l'Urss non cambia; e anche se siete più ben vestiti di dieci anni fa. anche se si vedono circolare più automobili, anche se i negozi sono forniti, anche se avete più scienza e tecnologia. l'Urss ne) suo intimo resta sempre "Rus". Sa, no, cosa vuol dire rus in Ialino? Terra lavorata, campagna, questo me l'ha insegnato il vostro poeta Esenln. K qui a Kiev mille anni fa è nata la vostra Rus. con Vladimir». Juri sorrise soddisfatto e dopo l'aringa e le patate ci bevemmo un quarto di vodka. Mario Rigoni Stern