La ballata dei grandi sconfìtti di Ezio Mauro

La ballata dei grandi sconfìtti CORSA AL QUIRINALE: INCHIESTA FRA CRONACA E STORIA La ballata dei grandi sconfìtti La aprì Benedetto Croce nel '46 - Altri nomi sono stati bruciati nelle sette elezioni di questi trentanove anni - De Gasperì aveva detto: «Io al Quirinale? Mi sentirei già morto» - Merzagora confida i retroscena della sua candidatura nel '55: «Accettai: non ero abituato a queste porcherie» - Come nel '64 furono messi fuori gioco Leone, Fanfara e Nenni - Inganni e franchi tiratori ROMA — Solitario davanti al suo scrittolo in palazzo Filomarino, quel mercoledì di fine giugno 1946, Benedetto Croce non poteva saperlo: ma prendendo carta e penna per rispondere solennemente di no a Pietro Nenni che lo aveva invitato a lasciarsi candidare come Capo dello Stato, inaugurava sema volerlo il lungo elenco dei «cadaveri eccellenti, di cui è lastricata la strada che porta al vertice della Repubblica. Croce impiegò tre giorni per pensarci e poi tolse di gara da solo quello che sarebbe stato il nome più illustre della prima campagna elettorale, un nome a cui Nenni si rivolgeva con il tleU. Altri nomi, piti o meno illustri, sono stati bruciati con inganno e con astuzia nelle sette elezioni di questi trentanove anni, per ambizione o per ingenuità, attraverso il calcolo o l'errore. Qualcuno dalla corsa si è tenuto ad ogni costo lontano («Io al Quirinale? MI sentirei già morto con quattro candelabri attorno», disse una volta De Oasperi), qualcuno ha cercato di ripeterla sette anni dopo averla vinta, come Einaudi, che invitò a cena Andreotti il Venerdì Santo del '55 per accennare discretamente a una sua rlcandidatura. Altri ci sono finiti dentro per caso, per obbligo, per sbaglio, per una tenace vocazione alla sconfitta. E qualcuno è uscito dalle urne di vimini, in cui si raccolgono i voti per il presidente, bruciato due volte. Così, in un Paese in cui ancora non si sa qual è la regola per costruire un Capo di Stato, è piti facile cercare di capire come non si fa un presidente. Lo sa benissimo Cesare Merzagora, che in soli tre giorni ha visto spuntare, crescere e appassire la sua candidatura e oggi può ricostruire nel dettaglio quella che giudica «uba' presa in giro molto ben organizzata». Eppure, eravamo nel 1955: c'era già stato.il precedente di Carlo Sforza, candidato di De Oasperi, impallinato sette anni prima dal mprofessoHnU de anche perché, come confidò Dossetti, era «un cacciatore di gonnelle ancora in piena attività*. Ma Merzagora rivela adesso che cosa lo spinse segretamente ad accettare di scendere in campo per la successione a Einaudi: una vecchia, mezza promessa di De Oasperi in persona, che qualche tempo prima lo aveva convinto ad accettare la presidenza del Senato come trampolino di lancio, confidandogli che pensava proprio, a lui come «riserva» de perii Quirinale. ' ' Al)ieiiha1o,der-55. tre,.njesi prima del voto, arriva d'Merzagora un chiaro invito di Oiullo Andreotti a non esporsi troppo: «Tu puoi far cadere Einaudi, non puoi sostituirlo». «Io credetti alla strategia di De Oasperi più che alla tattica di Andreotti, spiega oggi Merzagora. Non potevo immaginare che proprio l'allievo avrebbe tradito l'Idea del maestro. Cosi mi feci giocare come un bambino a mosca cieca. Ricordo che 1 grandi capi de vennero a garantirmi un consenso che non avevano, alle dieci di sera della vigilia: prendere o lasciare. Oggi saprei cosa rispondere, allora ac¬ cettai senza nemmeno un controllo. Venivo da un mondo di persone per bene, non ero abituato a queste porcherie». . Dovranno abituarsi in tanti. Nel 1984,-té'tkntttito votazioni che portano Saragat al posto di Segni lasciano sul terreno tre concorrenti bruciati in un colpo solo: Leone, Fanfani e Nenni. «Diciamo pure che per me fu un vero e proprio supplizio cinese, lamenta ancora oggi Leone. Era come se un "grande vecchio" organizzasse la ballata delle schede bianche per disorientare il Parlamento. Le vedevo crescere di dieci, scendere di venti, con voti di' disturbo distribuiti sapientemente tra candidati impossibili». Dietro, c'era la regìa sommersa di Moro. Aveva voluto che la de scegllesse Leone per evitare Fanfani. Adesso, non voleva che il Parlamento votasse Leone, per arrivare a Saragat e consolidare cosi la sua politica. , C'è'un lncórlifo''fìno a oggi segreto e rivelatore, a Palazzo Chigi, tra Moro e il leader della sinistra de, Carlo Donat-Cattin, accompagnato da Toros e Zanlbelli. Senza giri di parole, Moro spiega che Leone non deve passare. •D'accordo, dicono gli uomini di "Forze Nuove", ma come facciamo?». «Per quanto mi riguarda, lo faccio 11 presidente del Consiglio, risponde Moro, salutandoli. Quanto a voi, esistono del mezzi tecnici». £ ouesli mezzi tecnici, si chiede ad alta voce Toros, scendendo le scale, quali sono? «Soltanto tre, risponde Donat-Cattin: il pugnale, 11 veleno, 1 franchi tiratori». E infatti, i franchi tiratori de bruciano Leone. Per non sbagliare — rivela lo stesso Leone — Elsa Conci, segretaria del gruppo de e fedelissima moro tea, si piazza sulla porta dell'aula e a ogni democristiano di sinistra che entra, suggerisce: «Scheda bianca». Nel cannibalismo democristiano, quell'anno, nasce e muore anche la candidatura Fanfani. Il ritiw dopo dieci votazioni è dovuto a una precisa pressione del Vaticano (preoccupato per le divisioni de su due candidati) e al mancato sostegno del psi, nonostante le tinte catastrofiche con cui Fanfani sa dipingere lo scenario della sua caduta. «Se mi aiutate voi vado fino In fondo, dice a De Martino il 18 dicembre '64, se no posso essere costretto a cedere. E se cedo, sarà, finita per la sinistra cattolica». Non riuscirà a sfondare a sinistra nemmeno nel 71, l'anno della sua seconda bocciatura, quando parte come candidato unico della de e deve poi lasciare il passo a Leone, in una sorta di nemesi democristiana. «Io lo avevo avvertito, dice oggi Andreotti. Andai a casa sua con Forlanl. Ho confessato tutti i deputati de — gli dissi —, come capogruppo posso garantire che non faranno scherzi. Ma come esperto di Montecitorio, posso anche garantirti che pst e pei non ti voteranno mal ». Cernie Fanfani, anche Nenni cadrà due volte, lui pure nel '64 e nel 71, in una corsa accettata controvoglia. «Non farti buggerare», gli confida in un orecchio proprio Fanfani, esperto, il 19 dicembre 1964. C'è anche un incontro riservato tra l due, combinato da Giacomo Mancini a casa sua. Fanfani arriva in anticipo, prima «li Nenni è di Mancini per paura,dei curiosi s'infila nel garage,'sale sul primo ascensore senza sapere che è quello di servizio, sbuca allimprowiso nella cucina di casa Mancini senza che nessuno lo abbia annunciato. Alla fine t due carbonari riusciranno a parlarsi, concordando sull'ultima strategia possibile, suggerita da Mancini: far crescere t voti di Nenni per scoraggiare Saragat, portarlo al ritiro e giocarsi tutto in una corsa testa a testa. L'operazione non riesce e Nenni è sfiduciato e scettico sette anni dopo, nel 1971, quando vede Berlinguer tiepido sul suo nome, La Malfa contrario, i suoi amici di partito impartenti. «n vostro, li frena, è un modo sbagliato di volermi bene». Infatti la candidatura parte e non decolla. Alla sua bruciatura, Pietro Nenni assiste impassibile, senza muovere un dito, nemmeno l'ultima notte: «Non ho cercato nessuno, non ho telefonato a nessuno. In casi slmili non c'è che una cosa da fare: chiudersi In se stessi». E' ciò che fa Aldo Moro negli stessi giorni, quando dopo la caduta di Fanfani il conclave de deve scegliere se candidare lui o Leone. Non si presenta alla riunione e perde, «mentre soltanto affacciandosi alla stanza, dice Donat-Cattin, avrebbe spostato 15 voti». Si scatena la paura democristiana delle aperture di Moro al pei. «I deputati della Liguria, rivela Andreotti, minacciarono in caso di elezione di Moro al Quirinale di dichiarare l'Indipendenza della de ligure, sul modello bavarese». Prima Granelli, poi Bodrato telefonano a casa di Moro, per convincerlo a intervenire, a spiegare e chiarire. «Non è 11 caso, risponde al primo il leader de, mi conoscono bene». «Non devo e non voglio farmi propaganda», ribatte al secondo. L'estremo tentativo lo fa Mancini, allora segretario del psi. L'ultima notte, tra il 23 e il 24 dicembre 71, incontra Moro alle cinque del mattino a casa di Di Vagno. Oli prospetta una elezione alla Gronchi: «Tu di al tuoi di non dare a Leone i voti che gli mancano. Si ritirerà, e toccherà a te, inevitabilmente». Moro non ci sta: «Non farò mal niente contro 11 partito». Afa è amareggiato, scosso, deluso da chi lo ha attaccato nella riunione de. «Certi giudizi sugli altri leader de scritti nelle lettere dal carcere br, dice oggiMancini, io 11 ho sentiti già quella notte». Sette anni dopo, qualcuno registrerà un'altra amarezza, quella di Ugo La Malfa, lui pure bruciato sulla strada del Quirinale anche se non era mai sceso ufficialmente in campo. Quanto pesa la sconfitta nella corsa al Quirinale, per i vecchi padri della Repubblica, nessuno può dirlo. C'è però un verso di Pier Paolo ' Pasolini scritto per Nenni, che forse vale per tutti: «La lotta senza vittoria inaridisce». Ezio Mauro (Oli articoli precedenti sono apparsi 1115 e 1117 febbraio). Bari, gennaio 1944. Benedetto Croce con Carlo Sforza: due diverse «sconfitte» nella corsa al Quirinale

Luoghi citati: Liguria, Roma