De Benedetti: affare ni dente di Mario Pirani

De Benedetti: affare ni dente Il finanziere racconta come in ventiquattro ore ha comprato la Buitoni De Benedetti: affare ni dente «Ero stato contattato tempo fa tramite PEuromobiliare, ma non se ne era fatto nulla» «Poi le condizioni poste dai francesi della Danone hanno spinto la Ibp nelle nostre mani» Carlo De Benedetti dopo l'accordo Olivetti-Att ha messo a segno un altro colpo con l'acquisto della Buitoni Perugina, un gruppo industriale e un marchio che non fanno parte solo della storia economica del nostro Paese ma in un certo senso della «storia famigliare» degli italiani, dei loro consumi quotidiani, dell'immagine pubblicitaria più tradizionale, dalle «figurine» dei 4 moschettieri ai baci Perugina. Fino a giovedì scorso sembrava che, sotto un'accorta regìa pilotata da Mediobanca, la Buitoni dovesse finire assorbita dal gruppo francese Danone, poi, all'ultimo momento, il gioco è stato rovesciato. Chiediamo a De Benedetti, il capitalista-manager che ama le uscite a sorpresa, di raccontarci i retroscena della trattativa. «Qualche tempo fa nel quadro dei tentativi per trovare nuovi capitali che permettessero di fronteggiare ,l'indebitamento del gruppo, l'avv. Vittorio Ripa di Meana, che rappresentava la famiglia, prese contatti con il finanziere Guido Vitale della Euromobiliare perché verificasse se c'erano altre soluzioni oltre quella francese. I Buitoni in quel momento erano divisi tra chi voleva vendere comunque l'azienda, chi preferiva mantenere una quota e chi cercava di ottenere condizioni diverse. 11 presidente, Bruno Buitoni, era preoccupato non solo per le trattative che andavano per le lunghe ma per i segnali un po' nervosi che gli arrivavano dalle banche, inquiete per la situazione debitoria, e che insistevano per una conclusione a favore della Danone». Lei a quel punto si sarà sentito ormai tagliato fuori? «Un mese prima Vitale, senza fare mai il mio nome, aveva informato i Buitoni che era possibile per loro una conclusione diversa, ma l'ipotesi era rimasta snza seguito. Questa ch'ance riemerse però inopinatamente giovedì pomeriggio della setti mana scorsa, quando la Danone avanzò una condizione aggiuntiva, e cioè, che la famiglia ottenesse dalle banche un consolidamento dei 140 miliardi di debito ad un tasso inferiore di 4-5 punti a quello corrente. Se i Buitoni fossero riusciti a consolidare solo la metà dei debiti, allora avrebbero dovuto concedere un ulteriore sconto sul prezzo di vendita e se le banche, invece, avessero rifiutato ogni agevolazione (che trattandosi in Italia quasi sempre di banche pubbliche significava un esborso a carico del contribuente), la Danone si riteneva addirittura libera di ritirarsi. «Ma come poteva la famiglia ottemperare ad una condizione che dipendeva dalle banche o rischiare, in caso contrario, un ripudio che la lasciava disarmata? A quei punto hanno reagito, si sono messi in contatto con me e abbiamo subito concluso l'accordo». Ma cosa l'ha spinta all'acquisto di un gruppo cosi lontano dalle sue vocazioni? Cosa l'ha convinta che era un buon affare? Aveva fatto delle analisi preventive esaurienti? «Non ho avuto tempo per fare analisi. Sono partito da un concetto più generale: che se un'azienda perde quando c'è un prodotto valido e un mercato valido, questo è dovuto o a errori di managerialità o di capitalizzazione. Poiché ho giudicato di essere in grado di rimediare a questo tipo di errori ho fatto una offerta migliore dei francesi, senza condizioni e senza cercare concordati con le banche. Su questa base i Buitoni hanno ceduto alla Cir il 100% della loro finanziaria, che controlla il 53% del gruppo. Un po' più difficile è stato acquistare il 10% in mano al saudita Pharaon perché era venerdì pomeriggio, giorno festivo per gli arabi, ma Guido Vitale con la sua invidiabile abilità è riuscito alla fine a scovarlo a Gedda e l'affare si è concluso». Quanto ha pagato e da dove le vengono cosi abbondanti disponibilità a pronta cassa? Dalla elettronica? «Quanto ho pagato lo dirò solo il 15 marzo alla assemblea dei miei azionisti. L'elettronica però non c'entra. E' un affare Cir, una scatola finanziaria che io, poiché credo nel mercato borsistico, acquistai nel '76 anche se possedeva solo una conceria che perdeva soldi e 2 miliardi di capitale. Da allora, attraverso aumenti di capitale e investimenti fruttuosi, è arrivata ad avere mezzi propri per 300 miliardi mentre il suo patrimonio netto, rivalutando le partecipazioni ai valori di Borsa, sfiora i 500 miliardi. Sbaglia chi fa una specie di sovrapposizione tra Olivetti e Cir: questa è una holding finanziaria sempre più importante e diversificata, che si muove in un'ottica che non ha nulla a che vedere con quella della Olivetti». Sarà pure cosi. Resta il fallo che l'immagine che lei ama dare — e proprio l'altro ieri i giornali lo riportavano — è quella di un industriale che esalta l'esigenza di investire nei prodotti ad alta tecnologia e polemizza con chi sostiene l'esigenza di un rinnovamento anche nei settori maturi. Come concilia tutto questo con la nuova divisa di produttore di spaghetti e cioccolatini? «Non facciamo guerre re- ligiosc o filosofiche sulla innovazione. Non ho mai pensato che non possano essere un ottimo affare la pasta, le scarpe, il cemento o le automobili. Ma non credo che lo Stato debba convogliare qui i fondi per la ricerca e la tecnologia che vanno indirizzati, invece, nei settori più avanzati. Ce lo conferma il peggioramento di un terzo in dieci anni delle nostre ragioni di scambio, lo squilibrato rapporto nel 1951 tra un commercio mondiale dei manufatti aumentato del 12% e una crescita solo del 5% delle esportazioni italiane e, infine, l'aumento del 16% nello stesso anno delle nostre importazioni in attrezzature per accrescere la produttività, in presenza di una stagnazione produttiva del settore, il che dimostra che dobbiamo acquistare all'estero la tecnologia che ci è indispensabile». Tutto giusto. Resta, comunque, un interrogativo sulle ragioni che l'hanno spinta a questo salto nel prodotto più maturo che ci sia, la pastasciutta. Non sarà forse perche pensa di fare un buon affare rivendendo la Bulloni-Perugina, una volta risanala la gestione, secondo la fama che si è fatto di staffettista, di uno specialista, cioè, in proficui passaggi da un'azienda all'altra? «Premesso che non ci sarebbe nulla di male se anche in Italia incominciasse a funzionare oltre alla mobilità del lavoro anche quella del capitale, debbo risponderle che la sua definizione non mi riguarda. Festeggio nel 1985 le mie nozze d'argento con l'imprenditoria e in questi 25 anni ho sempre continuato a costruire e a comperare, con due sole eccezioni. Ho venduto la Gilardini, un'azienda magnifica ieri come oggi, quando sono diventato amministratore delegato della Fiat, considerando deontologicamente incompatibile controllare un'impresa che vendeva alla stessa Fiat il 20% del suo fatturato. L'altro caso è la partecipazione puramente finanziaria nel Banco Ambrosiano che ho dismesso quando mi resi conto che Calvi, di cui allora non era facile parlar male, si rifiutava di fornire i dati indispensabili alla trasparenza dei bilanci. Al di fuori di questi due casi non ho mai venduto nulla». Allora si prepara a dividere il suo tempo fra Ivrea e Perugia? «No. Consideri sempre che io ho due cappelli: uno di manager, alla Olivetti, e uno di capitalista, alla Cir. Quest'ultimo cappello copre poi o una funzione di controllo e di comando, dove sono in maggioranza, o una di pura partecipazione — ad esempio all'Espresso o all'Euromobiliare — dove sono in minoranza. La Buitoni, comunque, non la gestirò in prima persona ma l'affiderò ad un nuovo management che metterò in grado di realizzare un risanamento che non mi suscita grosse preoccupazioni. Ne abbiamo viste di peggio». In tutta questa vicenda cosa le ha dato maggior soddisfazione? «La risposta della Borsa. In pochi giorni le azioni, senza che alcuna operazione di rinnovamento sia stata ancora neppure ventilata, ha rivalutato del 60% le quotazioni, soltanto sulla fiducia. Così i piccoli azionisti di minoranza, che al momento delle trattative con la Danone potevano vendere il titolo a 2800 lire, sono riusciti in tre giorni a vederselo valutato 4800 lire, un prezzo vicino a quello pagato per il pacchetto di maggioranza. Questo mi sembra il fatto più importante». Mario Pirani

Luoghi citati: Gedda, Italia, Ivrea, Perugia