Gibuti, la Casablanca dei profughi di Mimmo Candito

Gibuti, la Casablanca dei profughi Una marca di frontiera, assediata dal deserto, che divide il mondo arabo da quello africano Gibuti, la Casablanca dei profughi Le carovane dei nomadi non popolano più le notti della città da quando la siccità ha cancellato le misere risorse dei Paesi vicini - Fino a 10 anni fa era il terzo porto francese dopo Marsiglia e I^e Havre, oggi assiste distratta alle «parate» delle flotte militari nel Mar Rosso - Gli ultimi legionari tengono in vita un'atmosfera da vecchia colonia DAL NOSTRO INVIATO GIBUTI — Nei quattro mondi dell'Africa le frontiere sono segnate dalla Natura. La terra del campi lascia spazio al deserto, che finisce nella steppa, che si apre alla giungla. Certo, geografia e storia non si obbligano a rispettare una scansione ordinata lungo la scala delle latitudini, dalla costa berbera giù fino al Capo di Buona Speranza; ci sono intrichi contorti, il deserto s'allarga e ruba terra alla terra, 11 mutare della metereologia ammazza la giungla. Tuttavia, dentro l'orizzonte senza fine del Continente, il percorso della storia ha privilegiato aree e regioni dove quei quattro mondi s'incrociavano, generando bacini di cultura che hanno segnato nel tempo rincontro di popoli e civiltà. Come qui a Gibutl. Questa è marca di frontiera. Di fronte ai milioni di chilometri quadrati dell'Africa, una piccola punta di terra desertica che non è larga più della Lombardia potrebbe essere schiacciata da questa sua ambizione. E altrove lo sarebbe di sicuro, ma non qui: in Africa conta ancora il rapporto con la terra, la natura, 1 segni vitali del'eslsten- za. E Olbuti, che è fatta solo di deserto, di pietre, di mare, e di calore, questo rapporto lo esalta allungandosi a tracciare il confine tra 11 mondo degli arabi e quello degli africani. Solo che la séeheresse, la carestia della siccità, e della fame, ora è arrivata anche qui. Un tempo le notti di Oibuti-città erano marcate dal tonfo unghiato del passo dei dromedari e dalle lente file di buoi e montoni. Le carovane arrivavano dal Sud somalo e dal Nord della Dancalla, lunghe per qualche chilometro, accompagnate da muggiti, fischi, richiami che il silenzio del deserto propagava all'infinito. Erano notti aperte, uguali nel tempo da secoli. La citta diventava un caravanserraglio nell'itinerario delle piste che sboccava sul porto. Cammelli e dromedari s'imbarcavano per l'Arabia Saudita, montoni, buoi, vacche, capretti finivano nello Yemen. I boutres si riempivano a sfiorare l'acqua dalle murate. Erano viaggi lenti, In un mare piatto di vento. Ora i boutres se ne stanno pigri e inutili, e la notte a Glbuticitta dormono tutti. ' La siccità, ammazza uomini e bestie, Indifferente. I profughi ora sono fermi là dove le piste del deserto tagliano passaggi che gli occhi di un europeo sono Incapaci di scorgere. Nella sabbia, dietro al dosso corto delle dune, spuntano all'improvviso un centinaio di tucul. Sono villaggi fittizi di popoli nomadi, comunità artificiali d'una sedenterlzzazione forzosa e temporanea. Il tam-tam misterioso dei nomadi ha segnalato quest'ansa del deserto, ma l'orizzonte è dovunque uguale, monotono di sabbia gialla e di vento. La pista, Invisibile, divide poi a mezzo il mondo degli africani da quello degli arabi. Un etnologo forse avrebbe difficoltà ad accettare una separazione tanto netta, e con caratteri cosi decisamente definiti; eppure nella sabbia che è uguale dappertutto, gli Afar se ne stanno da una parte e gli Issa dall'altra. La morte comunque non fa distinzioni. Nel tucul di paglia si spengono In silenzio gli uni e gli altri, ammazzati dalla fame. Un medico giovane, un francese con gli occhiali larghi e 1 baffi, passa dove può e fa quello che può. Cioè poco, perché manca di tutto. A qualche chilometro dall'accampamento della fame c'èil villaggio di As Eyla, con un dispensarlo assediato dalle mosche. I più gravi vi vengono portati a morire, o a vivere se ci riesco- no. Un ragazzo ha 11 camice bianco da Infermiere. Anche lui fa quello che può. Gibuti-città è accerchiata dal deserto. Affondata nel caldo umido dei tropici sta come l'occhio del ciclone, quieta, silenziosa, assopita; tutt'attorno la natura esplode di violenza, il mare di sabbia si distende dentro conche lunari, antichi vulcani aprono gole e passi senza ombre. Ma la città finge d'ignorare questo assedio, e le notti ormal vuote di carovane ascoltano le musiche smorzate che i bistrò lasciano scivolare per strada. Le nuche rasate dei legio¬ nari affollano i caffè, le prostitute etiopi parlano un francese stentato ma hanno gli occhi grandi dell'adolescenza. E sorridono sempre. C'è il clima spossato delle vecchie colonie, gli alberghetti sudici e deserti, 1 nomadi che dormono sotto i portici di legno. Al mercato 11 khat è venduto in silenzio ma senza grandi segreti, la droga aluta a battere il calore. Il pastis consuma la giornata e accorcia l'alba. Aden è di fronte, a qualche decina di chilometri soltanto. Quando 11 vento soffia giusto, da qui si vede la costa dello Yemen. E forse anche le macchine militari sovietiche che controllano il Mar Rosso dagli isolotti buttati in mezzo all'acqua. I francesi pagano 1 tre quarti dell'economia di Gibutl, e le loro navi stanno alla fonda appena al largo del porto. Al mattino, quando il sole è ancora basso. 1 marinai in canottiera bianca corrono In formazione lungo la strada che lascia la città per il deserto: hanno il collo corto, sono muscolosi, 11 sergente grida gli ordini dell'esercizio con le vene gonfie e la bocca rabbiosa. Questa potrebbe anche essere la frontiera del mondo. Il tempo vi scorre lento, i o o o o r a . i grandi alberi del tropico lasciano ombre placide, l'acqua scivola sulla battigia senza rumore. L'orizzonte è dovunque piatto. C'è lo stesso sfinimento del mari del Sud, 1 giorni senza futuro. Hugo Pratt viene qui a disegnare i mondi immobili di Corto Maltese, e le sue figure d'inchiostro non hanno mai sfondo in questa dimensione che mostra d'ignorare il tempo. La casa del primo ministro è all'ombra d'un giardino ricco di alberi. Le pareti del salone sono ricoperte di legno, In purissimo stile baita alpina. Lui ha grandi denti bian¬ chi e una gazzella in un recinto. Gli arabi di Gibutl vengono dallo Yemen, sono marinai e predatori, hanno ancora nel sangue il sogno delle scorrerle. ÀI tempo dell'impero d'Indocina, questo era il terzo porto francese, dopo Marsiglia e Le Havre. Di quel tempo gli è rimasta solo la pratica dei traffici commerciali che ignorano ogni regolarità. La corruzione è la legge, e 1 francesi guidano con distacco il grande gioco. Gibutl sa di Casablanca, anche se nel caffè 11 pianoforte che cantava As Urne gocs by è stato sostituito da un anonimo juke-box. La violenza della natura attorno si somma alle sagome grigie delle navi da guerra sovietiche, alle sagome grigie di quelle francesi, alle cannonate che ogni tanto Etiopia e Somalia si scambiano appena di là dalla frontiera. Bogart non c'è, e 1 residenti francesi hanno ville e domestici di colore. Mancano anche I nazisti, ma un nemico qui è facile trovarlo. Basta guardarsi attorno: l'Africa è come un cantiere di guerra. Avamposto d'un tempo finito, questo corto pezzo di terra sopravvive nel sogno di diventare un giorno Singapore, o forse Hong Kong. Culla le sue voglie sotto 1 banani mescendo il pasti*, parlando arabo e francese, vestendo africano. La sua è una scommessa sulla tenuta di questo mondo. Che è un mondo poi che muta anche nella geografia. A pochi chilometri da Gibuti 11 suolo è spaccato fin nelle viscere, con una delle faglie più nette della crosta terrestre. La mappa qui disegna con una precisione da geometra la separazione del blocco africano da quello asiatico, in una corsa dei due continenti ad allontanarsi. Qui sta per nascere un nuovo oceano, quello Eritreo. E' un oceano ancora giovane, ha solo 25 milioni di anni e qualche decina di chilometri di larghezza, ma nei prossimi 200 milioni sarà diventato grande quanto l'Oceano Atlantico. Sul fondo asciutto del lago Assai, oggi 1 playboy coloniali di Gibutl scivolano nel vento sulla barca a ruote. Mimmo Candito buti. Un profugo tenia di sottrarsi alla KSéchérèssc», la carestia della siccità e della fame, lungo un'invisibile pista nel deserto

Persone citate: Bogart, Hugo Pratt