Il mare dei tranelli

Il mare dei tranelli Il mare dei tranelli MARIO PIRANI Per i sei mesi di presidenza italiana della Cec sono stati tra l'altro predisposti palazzi storici — Villa Doria Pamphili a Roma e il Castello Sforzesco a Milano — dove la nostra diplomazia saprà rinnovare la gradita prova di squisita ospitalità che stupì gli ospiti europei quando quattro anni or sono convennero per il vertice comunitario nei saloni dell'Isola di San Giorgio, a Venezia. Ma basta rinverdire i fasti di una tradizione turistico-culturale per cancellare le perplessità che periodicamente suscita la politica estera italiana, o meglio il modo distorto e strumentale con cui troppi leader politici con responsabilità dirette o indirette di governo sovente l'abbordano? Se in una prima fase la maggioranza pentapartita, per merito soprattutto di Craxi e Spadolini, era riuscita con la decisione sui missili e con l'invio del contingente militare in Libano a dar prova di una capacità di tenuta che ci valse subito maggiore considerazione internazionale, in un secondo momento le mai sopite velleità terzomondistiche e le illusioni di una «nostra» Ostpolitik sono sembrate riemergere, peraltro più per scopi furbeschi di manovra interna che per ragionata strategia. Cosi l'ansia per il «disgelo» con Mosca ha finito per tradursi nelle nefaste sparate sul pangermanesimo al festival del pei, mentre la fiammata di protagonismo autonomo culminata nell'incontro con Arafat — proprio all'indomani del vertice di Dublino dove i nostri partner europei ci avevano esplicitamente negato ogni mandato — ha alla fine acceso i fantasiosi deliri dell'on. Formica, secondo cui i servizi americani e israeliani avrebbero per ritorsione provocato la strage di San Benedetto Val di Sambro. Cè solo da sperare nella disattenzione altrui per le nostre penose diatribe se a qualche uomo di Stato non verrà in mente, nel corso dei prossimi incontri internazionali, di interrogare Craxi circa le fonti cui si abbevera il capo del suo gruppo parlamentare. Del resto l'epitaffio più consono al nostro attivismo mediterraneo ci viene proprio da quegli esponenti palestinesi, così a lungo amabilmente blanditi da tanta parte del mondo politico italiano (non fu Andreotti a suo tempo ad aprire ad Arafat i portoni romani, di bronzo e no?), i quali non hanno mancato, subito dopo l'incontro di Tunisi, di ribadire la validità della lotta armata per distruggere Israele. E come se non bastasse, in concomitanza con le rassicuranti parole del nostro ministro degli Esteri di ritorno da Amman, il braccio destro di Arafat, il «moderato» Kaddumi, ha respinto seccamente in una intervista a giornalisti italiani l'ipotesi andreottiana di una delegazione congiunta giordano-palestinese per eventuali trattative di pace. Aggiungendo, a proposito di una domanda sui terroristi, che egli «se agiscono per riconquistare i loro diritti nazionali li chiama combattenti della libertà». La permanente e per certi versi inevitabile vocazione mediterranea della nostra diplomazia ha quasi sempre comportato pochi effetti pratici e qualche spiacevole ambiguità, ma quando è giocata con personaggi come Arafat, Dom Mintoff, Gheddafi, ai danni si accompagna sicuramente la beffa. Non sarebbe arrivato il momento di volgerci un po' più verso l'Europa?