Le parole fossili di Primo Levi

Le parole fossili LIBERTINAGGIO COI DIZIONARI Le parole fossili Quando, tanti anni fa, ho letto per la prima volta 11 sergente nella neve di Mario Rigoni Stcrn, ho avuto un soprassalto imbattendomi nella domanda epica, ripetuta ossessi-, vamentc nella notte e nel gelo del Don, «Sergentmagiù, ghe rivarem a baila?». Baita, il ricovero, l'asilo, la salvezza, la casa. E' abbastanza strano che la parola baita, comune in tutto l'arco alpino, sia cosi simile all'ebraico bail, che appunto significa «casa». La coincidenza aveva cominciato a incuriosirmi quando avevo undici anni, e compitavo un po' di ebraico, purtroppo poi ampiamente dimenticato. Mi sembrava evidente che il termine alpino provenisse dall'ebraico, che era «la lingua più antica del mondo», e da questa presunta derivazione ricavavo una puerile fierezza: i Romani avevano bensì vinto i miei progenitori Giudei e distrutto Gerusalemme, ma almeno una parola ebraica aveva soppiantato la corrispondente parola latina. Insomma, era una piccola rivincita. Non sospettavo di essermi imbattuto in una conferma della teoria delle aree cara ai linguisti, secondo cui la presenza di una determinata parola in aree periferiche è testimonianza della sua arcaicità: è un affioramento di un linguaggio che nelle regioni intermedie è stato sepolto da parlate più innovative. Per decenni mi sono tenuta in corpo questa curiosità, frammista a innumerevoli altre, nel grande serbatoio dei perché senza risposta, finché non ho letto su un dizionario che si tratta appunto di una "parola alpina risalente al sostrato pahoettropeo dall'area basca a quella egea»; al che mi sono sentito pervadere da un'allegrezza altrettanto puerile. Dunque ero cascato su un fossile illustre, su un rarissimo resto di un passato linguistico che precede la storia, forse un relitto dell'età dell'oro, quando tutto il Mediterraneo parlava la stessa lingua, prima della Torre di Babele, prima che venissero dal Nord le armate feroci dei Dori, dei Galli, degli 1 Ili ri, a portare la guerra e la confusione dei linguaggi; quando un Basco poteva dire «andiamo a baita» a un Kgco, ed essere capito. Se ancora necessario, devo confessare che sto parlando qui di una mia vecchia debolezza, che e quella di occuparmi a ore perse di cose che non capisco, non per edificarmi una cultura organica, ma per puro divertimento: il diletto incontaminato dei dilettanti. Preferisco orecchiare che ascoltare, spiare dai buchi di serratura invece di spaziare sui panorami vasti e solenni; preferisco rigirare tra le dita una singola tessera invece di contemplare il mosaico nella sua interezza. Per questo i mici famigliari ridono benevolmente di me quando mi vedono (cosa frequente) con in mano un dizionario o un vocabolario invece che un romanzo o un trattato: è vero, preferisco il particolare al generale, le letture saltuarie e sminuzzate a quelle sistematiche. E' certamente un vizio, ma fra i meno nocivi; al di fuori della lettura, si manifesta nella tendenza a fare le cose che non si sanno fare; così operando, può anche capitare che si impari a farle, ma questo è un accidente, un sottoprodotto: il fine principale è il tentativo in sé, il libertinaggio, l'espio razione. Ricordo di aver letto molto tempo fa, su questo argomento e su questo giornale, un bellissimo saggio, naturalmente dilettantesco, del povero Paolo Monelli: si intitolava Elogio dello schiappino, e lodava chi si arrabatta a fare i mestieri altrui, l'autodidatta, lo sciatore che si avventura sulla neve senza aver frequentato i corsi e senza aver letto i manuali, chi si studia d'imparare una lingua straniera senza grammatica ma ponzando un giornale o conversando a ruota libera con il primo forestiero incontrato, il pittore della domenica, tutti coloro insonv ma che si sforzano d'imparare dall'esperienza greggia propria invece che dai trattati o dai maestri, cioè dal corpus sterminato dell'esperienza altrui. L'elogio, beninteso, è paradossale: si impara meglio e più in fretta se si seguono le vie tra¬ dizionali, ma le vie spontanee sono più allegre e più ricche di sorprese. Un caso particolare di questo libertinaggio «sportivo» consiste per me nella frequentazione inconsulta dei dizionari etimologici: esercizio tanto più remunerativo in quanto fatto a puro titolo gratuito, senza uno scopo pratico, senza intenti critici di cui del resto non sarei capace, e senza una scria preparazione linguistica. Ne posseggo cinque, per l'italiano, il francese, il tedesco, l'inglese e il piemontese: quello che mi è più caro è quest'ultimo, perché nasconde nelle sue pieghe insospettati diplomi di noni Ita per questo nostro dialetto, che io parlo male, ma che amo del «debito amore» che ci lega al luogo in cui siamo nati e cresciuti, e che diventa nostalgia quando ne siamo lontani. I diplomi a cui ho accennato sono i vocaboli piemontesi che derivano dal latino senza intermediazione dell'italiano. Non sono pochi, e quasi tutti appartengono al linguaggio della campagna: un'area in aii, dal latino rustico (spesso contaminato con parlate celtiche o liguri locali), si è passati direttamente ad un dialetto abbastanza simile a quello attuale, e in cui l'italiano ^parlato solo da qualche decennio, imposto dall'amministrazione, divulgato dalle migrazioni interne, dalla radio, poi dal cinema, ed infine, trionfalmente, dalla televisione. E' logico, ma insieme sorprendente e commovente, che la donnola si chiami tuttora musteila in piemontese (mustela in latino): nella italianizza- " N ta Torino le donnole non si sono mai viste, non c'è mai stato il bisogno di trasmetterne il nome di generazione in generazione. Il nostro buie è il latino boletus: per quanto riguarda i funghi, nessun'altra parlata neolatina, né il patrio italiano né il francese viciniore, si è dimostrata altrettanto fedele al latino quanto quella di noi Allobrogi; del resto, nessun fritto misto dà tanto onore ai funghi quanto il fritto alla piemontese; e non mi stupirebbe, anzi, proverei una sciovinistica fierezza, se qualcuno mi dimostrasse che la filiazione è inversa, che insomma i latini hanno imparato a chiamare boleti i boleti da qualche oscura gente transpadana, cioè da noi. Altrettanta gioia ho provato quando, riguardando la Copa virgiliana di recente tradotta da Zanzotto per Vanni Scheiwiller, ho trovato nel testo latino riportato a fronte nulla meno che la nostra topia, ignorata dall'italiano, e usata da latini e greci in un senso solo leggermente diverso da quello piemontese (aiuola anziché pergolato). E piemontesilatine senza intrusione italiana sono le tisoire (le forbici tornarle), la pàu (paura, pàvor), arsente (sciacquare, recentare), ancheui (oggi, hanc hodie). Varani (il rame, ma il termine dialettale è più vicino di quello italiano al latino aeramen), 10 siili tuttora usatissimo dai muratori (muricelo divisorio, stipcs: l'italiano stipite ha un al tro significato), il prl (il ven triglio dei polli, pelrarius per che spesso contiene sassolini), 11 malavi, che non corrisponde all'italiano malato ma al latino male habitus. La perla di questa corona è, per un giusto ritorno, lo stesso aggettivo latin, che in piemontese vale «agevole, spedito, scorrevole». L'italiano d'oggi non sente più il latino come la lingua «facile» per eccellenza, ma tale la teneva ancora l'Ariosto, là dove dice che il conte Orlando intendeva la lingua saracena «come latino». Ebbene, non molti anni fa ho sentito un ragazzo del contado che lodava (in piemontese) la propria bicicletta, dicendo che era «più latina» di quella del suo fratello maggiore. Sono scoperte minori, e già fatte innumerevoli volte dagli addetti ai lavori; ma si prova ugualmente un gentile piacere nel riscoprirle. Allo stesso modo c'è chi, in mezzo alla selva degli impianti di risalita, prova piacere a salire fino alla Banchetta con gli sci e le pelli di foca. Primo Levi

Persone citate: Ariosto, Baita, Copa, Mario Rigoni, Paolo Monelli, Vanni Scheiwiller, Varani, Zanzotto

Luoghi citati: Gerusalemme, Torino