L'uomo americano

L'uomo americano STORIA DEGLI USA, OLTRE I MITI L'uomo americano E* inevitabile che chi scriva' una storia degli Stati Uniti si trovi a dover affrontare la questione del rapporto fra il vecchio e il nuovo mondo. Maldwyn A. Jones, autore di una Storia degli Stati Uniti di cui è uscita la traduzione presso Bompiani, parte proprio da questo problema, sottolineando come gli americani, anche dopo il conseguimento dell'Indipendenza, siano «rimasti ancora a lungo in uno stalo di dipendenza culturale (e in minor misura economica) dall' Europa», pur assumendo, e ciòfin dagli inizi coloniali, una loro identità autonoma «dai modelli europei» e realizzando «una società distinta, con caratteri e forme del lutto originali». Il dato di una lunga dipendenza dell'America dall'Europa è innegabile. Ma penso che sia necessario mettere in risalto un aspetto molto importante delle relazioni fra le due parti. Gli Stati Uniti restarono si a lungo fortemente tributari verso l'Europa per quanto concerneva non solo la cultura in generale ma anche la tecnologia. Però non sul piano della cultura politica. Infatti, la cultura politica che si espresse già nella Costituzione, sebbene costruita con «materiali» europei, era fortemente distinta da quella europea: una distinzione, e persino contrapposizione, che si accentuò poi costantemente dopo la Rivoluzione francese (soprattutto nei confronti dell'Europa continentale). Si pensi a Madison, il quale scriveva nel 1787 che in Europa «i popoli sono fatti per i re», mentre in America i governanti sono fatti per servire il popolo; oppure a Hamilton, il quale affermava che era una benedizione per la nuova America di essere messa al riparo, grazie all' Oceano, dalle gelosie e dai continui intrighi che dominavano la vita degli Stati europei. Dopo di allora e fino a tempi vicini, è rimasto un luogo comune, solo contraddetto da poche eccezioni, 1' idea che l'Europa continentale costituisse una fonte incessante di esempi negativi: guerre continue, rivoluzioni e controrivoluzioni, colonialismo, imperialismo, lotte fra le classi, conflitti implacabili di culture e ideologie. E si deve dire che, al contrario di quel che spesso si pensa, lungi dal provare un complesso di inferiorità, gli americani ebbero fin dall'inizio un forte complesso di superiorità nei confronti del vecchio continente. Sicuramente: occhi sgranati dalla meraviglia e dall'ammirazione per il glorioso passato della madre Europa, per le sue cattedrali e i suoi castelli, per gli inarrivabili artisti e per tutto il resto; ma profonda convinzione che il figlio fosse chiamato a dare alla civiltà universale nell'avvenire i suoi maggiori miracoli. Jones, in questa sua opera che, partendo dagli inizi della colonizzazione giunge fino all' avvento di Reagan alla presidenza, fornisce una equilibrata e molto informata testimonianza sul come questa promessa fatta dagli americani a se stessi sia stata fondamenta! mente mantenuta. A mio parere, pur restando sempre a un notevole livello, la parte migliore del libro è quella che arriva grosso modo alla prima gurui. mondiale. E forse i più Delli sono i capitoli che com prendono il periodo tra la formazione degli Stati Uniti e la ricostruzione dopo la guerra .civile. Jones, che insegna storia americana a Londra, è attento a mettere in luce le peculiarità della vicenda americana: il dinamismo della società, l'allargamento della democrazia, le correnti della cultura, le tappe della politica estera del Paese. E paga il dovuto tributo alla storia degli Stati Uniti come storia della più grande democrazia del nostro tempo e di una società che ha saputo mantenere aperte, per favorevoli condizioni oggettive e capacità di risposta ai compiti che di volta in volta si sono presentati, le vie di uno sviluppo senza eguali. Ma non esita, e del tutto giustamente, a mostrare l'eccesso di trionfalismo proprio dello spirito americano, quando esso, carico di senso di superiorità, finisce per coprire sotto il manto della grande bandiera stellata certi significati della storia dell'America. * * Quest'ultima è fin troppo portata oggi (come lo era ieri) a pensare di aver rappresentato il trionfo di una sapiente ingegneria istituzionale e sociale capace di affrontare i problemi interni e di risolverli con il metodo della ragione e non, all'europea, con quello della spada. Orbene, l'autore scopre quando necessario gli altari. In realtà gli americani, allorché si sono trovati a dover affrontare contraddizioni che potremmo chiamare «strutturali», hanno anch'essi usato ben altro che la ragione. La sottomissione degli indiani è stata ottenuta con lo sterminio e la ghettizzazione. Il rapporto fra bianchi e neri ha costituito un'altra dimostrazione, fino a tempi recenti, di ininterrotta violenza. E soprattutto è stato con metodo «europeo» che Nord e Sud con la guerra civile hanno risolto il contrasto circa la natura e il futuro dell'Unione. E Jones opportunamente commenta che questo problema, il più grave fra quelli che mai abbia avuto il Paese, venne sciolto, appunto, «più con la forza delle armi che con quella della ragione». Di più. E' vero che l'America non ha conosciuto la lotta di classe in senso europeo e la spaccatura di culture politiche e di valori tipica della storia d' Europa; ma l'ascesa delle masse lavoratrici, la conquista dei diritti sindacali e di una legislazione sociale protettiva dei più deboli è stata, a diversità dell'allargamento della demo¬ crazia politica, quanto mai lenta e contrastata, costellata di scontri molto duri, spesso violenti e sanguinosi. E la stessa «epopea» dell'integrazione della fiumana degli immigrati è stata segnata da lotte aspre e talvolta furiose, da rifiuti ostinati, da odi fortissimi verso coloro che furono sovente considerati intrusi da mantenere quanto più possibile ai margini. Anche il mito della società americana come società dalle opportunità sempre aperte, di cui Sumner era stato il grande ideologo negli ultimi decenni del secolo, è da Jones non certo negato ma ridimensionato. Egli osserva che già Tocqueville aveva a questo proposito «per certi versi esagerato»; e mostra come, nella fase della industrializzazione accelerata dopo la guerra civile, proprio l'avventura strabiliante dei Carnegie, Rockefeller e Morgan, ecc., avesse messo in luce solo una facciata della medaglia; la quale, nell'altra facciata, indicava un forte allentamento della mobilità, una crescente stratificazione sociale in cui era sempre più difficile salire i gradini. Eppure, anche i) libro di Jones mette in luce quella che è stata la caratteristica profonda del grande Paese. Sottoposta periodicamente a ondate di tensioni fortissime di vario tipo, l'America è riuscita a raccogliere la propria società in misura crescente, attraverso potenti movimenti di «autoriforma», intorno ad un nucleo di valori politici e sociali fondamentalmente stabili: i valori del capitalismo, i valori della democrazia politica, i valori di un nazionalismo che, a differenza che in Europa fra gli ultimi decenni dell'Ottocento e la seconda guerra mondiale, è riuscito ad evitare, seppure non senza sbandamenti, l'abbraccio con la reazione e lo spirito militaristico, diventando per questo immensamente popolare. La conseguenza è stata che i miti dell'americanismo hanno poggiato su un nucleo permanente di realtà, che è quello che ha dato in America al sistema sociale e politico un consenso probabilmente senza confronti, e fa dire al cittadino di oggi «sono americano» con un orgoglio paragonabile per significato a quello con cui nella Roma antica si diceva «civis romanus sum». Massimo L. Salvador!