Dall'Africa a Sion dopo tremila anni

Dall'Africa a Sion dopo tremila anni Chi sono i falasha, gli ebrei d'Etiopia Dall'Africa a Sion dopo tremila anni NOSTRO SERVIZIO GERUSALEMME — V 85 per cento degli ebrei d' Etiopia viveva nella provincia di Gondar, nel Nord-Ovest del Paese, soprattutto nella zona del Lago Tana. Sono vissuti dimenticati da tutti per 25 secoli. La loro origine storica rimane misteriosa: si considerano discendenti degli aristocratici di Gerusalemme che tremila anni fa riaccompagnarono in patria il principe Menelik, figlio di re Salomone c della regina di Saba. Non gradiscono essere chiamati falasha, una parola che deriva dalla radice ebraica palash (emigralo, nomade) e che parla da sola della loro lunga vita di proscritti. Hanno mantenuto rapporti ininterrotti con i correligionari dell'Alto Egitto; e nel XV secolo un rabbino del Cairo segnalava l'esistenza di questi «ebrei dalle strane abitudini». Secondo alcuni storici, sarebbero i discendenti di un' antica tribù convertitasi al giudaismo a contatto della comunità egiziana. Fino al XVIII secolo ebbero un regno indipendente all'interno del grande impero etiopico, poi divennero una comunità miserabile e sfruttala. Alla fine del '700, un viaggiatore scozzese li valutava a 250 mila unità. Solo nel 1860 le organizzazioni ebraiche europee stabilirono i primi contatti con i falasha Gli ebrei d'Etiopia sono profondamente religiosi. La loro cultura prerabbinica, basata sulla tradizione orale, ignora gli apporti del Talmud e della Mishna. La loro Bibbia venne scritta nella stessa lingua semitica religiosa dei cristiani d'Etiopia, ifoa i falasha la commentano in amarico. Sono circoncisi, si sposano tra di loro e osservano scrupolosamente i precetti della Torah, soprattutto le norme culinarie della kashrut e il riposo sabbatico. Ma hanno abitudini e tabù alimentari unici: in Israele, rifiutano ostinatamente di mangiare cibo caldo durante il sabbat, anche se i rabbini spiegano loro che questo divieto non esiste per gli ebrei «attuali». Nei loro villaggi c'erano sinagoghe. Hanno quindi dovuto lottare duramente per essere accettati in Israele come ebrei di pieno diritto. Negli Anni Sessanta, la classe politica poneva la sorte dei falasha in coda alla sue preoccupazioni. Un ex presidente della Keneseth, Ysrael Yeshayayu, consigliò loro addirittura di «risolvere i loro problemi convertendosi al cristianesimo». Ma l'esodo dall'Etiopia assunse egualmente proporzioni sempre più vaste. Nel 1972, il gran rabbino sefardita di Tel Aviv, Ovadia Yosef, concesse loro finalmente il pieno titolo di ebrei dichiarando che erano lontani discendenti della tribù di Dan, figli d'Israele sperdutisi in una terra lontana. Nel 75 poterono beneficiare della «legge del ritorno», in base alle quale qualsiasi ebreo può stabilirsi in Terra Promessa. «Siamo a Sion, siamo a Gerusalemme?», domandano quasi tutti i nuovi arrivati. Quando sentono la risposta, si inginocchiano e baciano il suolo. I rabbini continuano però a pretendere che tutti gli immigrati etiopici, isolati tanto a lungo dal giudaismo mondiale, «rinnovino» la loro fede, pochi giorni dopo I' arrivo, accettando la cerimonia dell'immersione simbolica. Certi protestano contro questo rituale che considerano inutile e umiliante, giudicandolo, a torto, una forma di «conversione». In Israele, la falasha più famosa è Rena Elias. Ha appena compiuto sedici anni, e non parla neppure una parola di amarico. E' la prima sabra, la prima nata in Terra Promessa della comunità di origine etiopica. Il padre era arrivato vent'anni fa, emigrante solitario. Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa»

Persone citate: Ovadia Yosef, Rena Elias