Un anno di rock secondo CARLO MASSARINI

Un anno di rock secondo CARLO MASSARINI Un anno di rock secondo CARLO MASSARINI con sapori esotici. Africa in testa: «So» è un meraviglioso album di piccole storie fatte di emozioni, di slumature, di magica comunicativa, e il duetto con Kate Bush («Don'f givo up» è il momento più .cpmmovenje, e toccante. Kate non ria pubblicato nuovi album, dopo lo, stupendo 'Hbunds ot Love' dell'anno scorso, ma la sua raccolta « The Whole Story- la conferma la prima nel panorama femminile L'altra donna che sta innovando il linguaggio musicale degli Anni 80 è Laurie Anderson, che del suo incredibile show dal vivo ha tratto un film ad alto budget (che 'forse non vedremo mai), 'Home ol Ihe Brave' e la relativa colonna sonora «Language is a Virus-, fiera delle vanità divistiche da mass-media, è il brano più arguto e ironico dell'anno (e lo si può anche ballare), cosi come 'Songs Irom Liquid Days» di Philip Glass è l'avventura più emozionante in quel territorio dove musica colta — la lirica in particolare — si fonde con il pop. E a proposito di film americani che il nostro mercato non sa se accogliere o meno, il film «di culto' dell'86 potrebbe essere, a buon diritto, l'esordio cinematografico di David Byrne: una piccola e acuta, spassosa e grottesca e poetica odissea di una settimana in un immaginario villaggio del Texas. « True StorteS' è il titolo del film, e il disco omonimo dei Talking Heads è a sua volta un viaggio nei tanti microcosmi della cultura musicale americana. Per chiudere (scusandomi già adesso per le inevitabili omissioni), i miei due gruppi-scherzo preferiti: gli Art of Noise, che fra campionamenti e remake 'In Visitile Silence» dimostrano come la tecnologia può essere usata anche per sfizio, invenzione, elaborazione, suggestione. E i Sigue Sigue Sputnick, demenziali alfieri di un post-r'n'r ancora da venire (verrà mai?) che hanno imbottito il loro -Flaunt fra di messaggi pubblicitari a pagamento, ritmi elettronici e atmosfere futuribili e sintetiche. Come è ormai un rito, alla fine dell'anno eccoci di nuovo qui a fare mente locale su quello che è successo sulla scena mondiale del 1986. Senza dubbio (almeno a giudicare dal can-can dei mass.mèdia tutti) è stato l'anno di Madonna e di Prince (ma non lo .era già stato, jl 1985?). À livello di mega-star, nessuno ha fatto parlare, scrivere e ballare quanto loro. Con «Parade», Prince ha continuato nelle sue sperimentazioni sulle nuove forme di black music: il ragazzo, narciso ed egocentrico quel è, ha però un talento unico (decisamente il più grande nel sue campo, negli Anni 80) e gli si perdonano momenti di irritante autocompiacimento. Madonna, d'altro canto, ha fatto un disco e i video relativi, (ben quattro, e intelligentemente tutti uno diverso dall'altro), un matrimonio, due film, è arrivata su tutte le copertine possibili e chissà che altro. «True Blue», per quanto criticato, nel suo genere — poco ballabile — è comunque un esempio di prodotto pressoché perfetto. Altri 'grandi' hanno avuto momenti memorabili: Bob Dylan si è ripresentato, scevro di abiti monacali da nec-cristieno, con il feeling del bei tempi andati in •Knocked Out Loaded', e Bruco Springsteen con «/ 've 797585» ha consegnato ai posteri la documentazione definitiva (ma incompleta per i veri fans nonostante i ben cinque album) della sua carriera, ma anche della storta moderna del rock'n'roll e di una generazione cresciuta con esso net bene (delle speranze) e nel male (la guerra innanzitutto). Jackson Browne, che dall'introspezione cosmica e melanconica degli Anni 70 si è spostato sempre più verso una passione 'politica' per gli oppressi e I rinnegati (tematiche simili a quelle di Bruca, anche se con taglio poeticc-letterario ancor più diretto), con 'Live in the Salanco' è tornato ai suoi massimi livelli, ma forse troppo conìrocorrente per interessare le masse di pop-gaudenti. E mentre Mlck prepara carriere soliste sempre più probabili, Keith lo si è visto al fianco di Aretha Franklin in un bel remake di 'Jumpin' Jack Flash'. La leggendaria 'regina del soul', riciclata con cresta cedrona colorata e tutta pimpante come una new waver, ha realizzalo un robusto album di rock nero (senza dimenticare le vecchie Intluenze di rhythm' n' blues), «Aretha». Un po' sulla scia di un'altra 'regina' che sembra aver avuto buoni rapporti in gioventù con Faust, Tina Turner. 'Break Every flu/e» forse un gradino sotto all'album precedente (che l'aveva riportata alla grande al centro dell'attenzione), comunque conferma la longevità di una grande interprete con grinta e vitalità da vendere. Molte novità, peraltro, in terra rock femminile. Innanzitutto le rivelazioni dell'anno: tutti parlano di Anita Baker come di una Grande 'predestinata', arche se i toni jazzati e fin troppo morbidi di «Raprurs» sono, per i miei gusti, eccessivamente sofisticati. Ma per tutti coloro che amano qualcosa di più 'moderno', sia per ritmica che per tematiche, c'è una quasi-sorellina di Prince, la bianca Teena Marie: 'Emerald City' svaria dal tecno-funk al jazz, con basi elettroniche, chitarre hendrixiane e suoni strizzati e rivoltati come quelli del -Principe', e con la stessa sensualità un po' perversa nella voce. Dalla vecchia Europa (ma torneremo presto a parlarne) arriva un manipolo di giovani cnanteuses ai primi album, ma già mature per palcoscenici mondiali: in testa a tutte la splendida Anna Domino ('Anna Domino'), una belga dalla voce e dal climi affascinanti e un po' tenebrosi. Poi Viktor Laszlo («Sfte»), una Sade meno leccatina ed esangue. Matilde Santing ('Water Under the Bridge'), un'olandese che fa intuire un amore per il pop-jazz simile a quello che animava Joni Mitchell alcuni anni fa. E infine Anne-Pigalle ('Everything Could Be So Pertect...'), una francese che evoca atmosfere da tecnocaté chantant. E' stato anche l'anno della New Age Music, come in America hanno chiamato con enfasi eccessiva e soprattutto poca aderenza al suo suono, un tipo di musica strumentale che si identifica con il catalogo della Wmdham Hill, una piccola (beh, una volta, adesso.) etichetta americana. Musica soffice ('tappezzeria per orecchie' dicono alcuni), fatta per distendere, evocare, far sognare. Una versione più nobile (un po' jazzata, un po' classicheggiante) della vecchia Muzak. Ma fra tutti coloro che sono stati presi a simbolo di questa nuova Musica «bucolic-chiC', almeno Andreas Vollenweider va menzionato. Svizzero, ottimo suonatore d'arpa, incrocia il suo strumento con ritmiche sinuose e leggere, creando climi molto suggestivi. 'Down to the Moon. è il suo terzo album. Per chi volesse cercare suggestioni meno facilone, ma non per questo meno accessibili, c'è il iavoro di David Sytvian: dopo lo scioglimento dei suoi Japan, na continuato una ricerca sonora raffinata e senza barriere e confini, espressa quest'anno in 'Brilliant Trees». O il giapponese 'Occidentalizzato' Ryieni Sakamoto che con la sua 'Illustrateti Musical Encyclopedia- si diverte — da straordinario musicista qual è — a toccare tutti i poli musicali del mondo. In una forma meno giocosa ma assai ispirata, da anni Peter Gabriel sta incrociando il pop La stessa coerenza hanno rivelato Van Morrison («A/o guru, no teacher, no method'), Elvls Costello ('Blood and Chocolalo») Robert Wyatt («01 Rottenhat') e Job Jackson ('Big World'). Sono tutti artisti che hanno da tempo rinunciato alla mèta del grande pubblico per poter mantenere le condizioni essenziali di creatività senza restrizioni o ammiccamenti commerciali. Certo, i loro album appaiono simili ai precedenti, ma quanta onestà nel loro essere se stessi fino in fondo. E a proposito di 'grandi vecchi', che piacere vedere Steve Winwood tornare, e fino al 'Back In the High Lite', dal titolo emblematico, vedere la magica voce che già caratterizzò gli Anni 60 e 70 (dagli 'Spencer Davis Group» ai «Trame») lasciarsi indietro il suono di sintetizzatori che aveva caratterizzato i suoi album solisti precedenti e indirizzarsi verso delle basi di solido tecno-funk americano. Che conforto vedere che il 'piccolo grande autore' Paul Simon a distanza di vent'anni dai suoi esordi con Garfunkel, è ancora in vena di capolavori. «Grand Land', realizzato con musicisti sudafricani, è una delizia di leggerezza e ispirazione. Che goduria, acoprire in «This Side of Paradise' che Rik Ocesek dopo sette anni di avventurose tecnorock con i Cars sa ancora rimanere al passo con i tempi. E che sorpresa vedere finalmente sia Lou Reed ('Mistrial') che Iggy Pop («B/afi, Blah, Blah') osannati, e giustamente, non solo dalla critica militante più fedele, ma anche dal pubblico, dopo tanti anni di alterne fortune. I Rolling Stones ormai a pezzi e tenuti insieme solo dalla volontà di Richard, hanno prodotto un mediocre «Dirty Work', e forse il loro tempo è ormai arrivato. Carlo Massarinl

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