Fellini: Cinecittà o niente di Lietta Tornabuoni

Fellini: Cinecittà o nien te IL REGISTA PARLA DEL SUO NUOVO FILM «L'INTERVISTA» Fellini: Cinecittà o nien te Odalische, elefanti, avventura esotica e telefoni bianchi, un tram azzurro per l'opera ambientata nella grande Fabbrica di Film - Mastroianni e Anita Ekberg insieme un quarto di secolo dopo «La dolce vita» - Ma l'autore sostiene: «Tento di dire che non ho nulla da dire, cerco di raccontare l'impossibilità di raccontare» ROMA — Stamattina, nel gelo degli ultimi giorni dell'anno, nel vuoto domenicale, Federico Fellini gira le ultime immagini del suo nuovo film L'Intervista: viali deserti, alberi, capannoni dall'aria provvisoria, chiazze di pioggia artificiale sull'asfalto sconnesso. E' la solitudine della Fabbrica di Film, di quella Cinecittà dove il regista ha realizzato nel 1959 La dolce vita e poi quasi tutte le sue opere, dove ha vissuto certo più che a casa propria, dove ha edificato i suoi universi paralleli e ricostruito la sua realtà più vera del vero. Il luogo che racchiude memoria e fantasmi di cinquantanni di cinema italiano è il Protagonista scelto stavolta dal Grande Visionario. Ma Fellini è stufo di Cinecittà, come si può essere stufi della prigionia del proprio lavoro o della propria vita? Oppure madre,' Cinecittà''to'non to' conosco, e neppure voglio conoscerla. E' il posto dove sto. Uno spazio che mi accoglie, e non mi giudica». L'intervista era nato come un breve pezzo per la tv, prodotto da Ibrahim Moussa e in parte finanziato dalla prima rete della Rat e dalla stessa Cinecittà, che celebra quest'anno il proprio cinquantenario. Era strutturato in un'ipotetica intervista fatta da una troupe televisiva giapponese al regista impegnato nella cineversione di America di Kafka. E' diventato nel suo farsi un vero film. Vi appaiono immagini del passato: la prima volta che Fellini ventenne, interpretato da Sergio Rubini, mette piede a Cinecittà, ragazzo provinciale affascinato, spaventato, e vede librarsi in cielo la mitica figura del Regista Usato su una gru; il set di film tipici degli Anni Qua¬ ranta, l'avventura esotica e misteriosa alla Salgari con odalische o elefanti e la storiella sentimentale stupida, dolce; il gerarca fascista amico della diva; il leggendario tram azzurro che conduceva a Cinecittà tutti i sognatori del cinema e che può compiere un piccolo viaggio fantastico toccando anche la Cascata delle Marmare. Vi appaiono immagini del presente: la lavorazione a Cinecittà di un esemplo di quell'estrema forma della visualità contemporanea che sono gli spot pubblicitari per la tv; la coppia de La dolce vita, Marcello Mastrolnnt e Anita Ekberg, precariamente ricomposta oltre venticinque anni dopo. E Fellini solo nel suo prediletto Teatro 5, al buio: poi i riflettori s'accendono a uno a uno, rovesciano sul regista torrenti luminosi, un chiarore abbagliante, un crescente fulgore che abbaci. .ns,elfi lw& del cinema'tLU^Or ra^àaceUe, tutto?-* - Senza eroi Allora: uno dei film d'addio dell'ultimo Fellini? Nostalgia, memoria? Noia del cinema? Viaggio all'interno di se stesso o intorno alla propria stanza? Minimalismo, postmodernità? Interroghiamo il regista, che in questi giorni sta leggendo Meno di zero di Bret Easton Ellis, il romanzo del nulla dell'ultima generazione letteraria americana. Onesto film... •E' un andare a zig-zag. Un tentar di dire: "Non ho niente da dire". Un cercar di raccontare l'Impossibilità di raccontare qualcosa. Non è un film nel senso tradizionale della parola: cioè immagini che narrano personaggi, storie e situazioni, il tutto animato da un sentimento, un'ideologia, un traguardo. Qui mancano la prospettiva, la trama, gli eroi. Non ci sono messaggi. E l'unico sentimento è quello di certe ore vuote, quando sledo alla scrivania, accanto al telefono da cui mi aspetto sempre chissà quali voci magiche, con davanti fogli di carta bianca, pennarelli. Comincio a scarabocchiare a caso seguendo gli impulsi del momento: una linea diventa un profilo che poi si perde, scrivo il numero di telefono d'una signora, tento di disegnare come Dorè o come Topor, traccio le solite tette ricattatorie, faccio un ritrattino di Mastroianni...». Protagonista non « Cinecittà? ■Avrei potuto raccontare Cinecittà come ultimo rifugio antivecchiaia, antinevrosi, antitraffico, antinucleare; come enorme deposito d'artificio, antro del mago, baracca di Mangiafuoco; come fortino degli assediati volontari, superstiti dell'esistenza che si divertono a In■vèti 19ju- rccme «unica difesa un'altra vita, 1 film».. Non è cosi? •Non è cosi. Quando ho scelto di raccontare Cinecittà, mi sono detto: escluso il documentario. Escluso il giornalismo: non mi è congeniale, diffido di quello che vedo e poi non vedo mai niente perché sono sempre risucchiato altrove da altre nevrosi. Esclusi aneddoti e ricordi: li ho scartati con una violenza che ha sorpreso anche me. Esclusa con orrore la visita turisticc-folclorlca dietro le quinte del sogno*. Cos'è rimasto? «Niente. Proprio niente. Ho cancellato la memoria, ho cancellato Cinecittà e i diversi possibili modi di raccontarla. Cosa resta? Viali simili a quelli del Policlinico. Tre, quattro persone in camice bianco che girano 11 Intorno fumando, parlando tra loro, andando a prendere il caffè al bar. Cani che corrono in gruppo dietro una cagna in calore. Sullo sfondo, palazzoni di periferia. Lungo i viali, capannoni come baracche da campo di concentramento. Alberi verde scuro. Aghi di pino per terra. Una palazzina, detta dnefonico. da cui arrivpnoi -clarnflrosi barri ti, musiche trionfali, scoppiettare di mitragliatrici. Insomma. Sto dentro Cinecittà. Non ho idee, non ho storie da raccontare, non ho un sentimento. Ho soltanto l'occhio. Con tiepida curiosità guardo lo squallore, l'assenza di tutto quel fantastico e glamour che qualcuno immagina in Cinecittà. Compito, tema, problema: si può riuscire a raccontare un attimo dopo quello che hai visto un attimo prima, a raccontare il nulla?». Andiamo: e tatto il materiale girato, la sposa Lara Wendel, le odalische, gli elefanti, il gerarca e la diva, gli spot pubblicitari d'un rossetto-cannone, il tram azzurro? «Qualcosa c'è, si capisce. Ma non è raccontato narrativamente, in modo strutturato, col compiacimento di fare quadretto o presentare un ricordo: questi elementi ci sono, ma cancellati, licenziati, buttati via. Lo sforzo è fare capriole e passi di fianco, inventarsi un altro alibi per non essere individuato. Il risultato dovrebbe essere scanzonato, avere una sua innocenza spavalda che cons^tot|ell"toventarwvBi^m«? to per momento, senza rispetto e senza considerazione: forse, qua e là, con qualche simpatia verso questo movimento di fuga, questo scantonare, nascondersi, mascherarsi». Una voce Lei è presente nel film, recita se stesso come in •Roma» o ne «I clown». •Sono presente in frammenti, in lacerti: mano, occhiali, cappello. Sono sparso qua e là. Lascio trecce. Poi con la voce fsocio i legamenti tre una parte visuale e l'altra: piccoli commenti, battute, sconfessioni, tentativi di chiarire». Mastroianni.» •Marcello fa se stesso. Lo Incontro a Cinecittà, andiamo insieme ai Castelli romani a trovare Anita Ekberg cui io non ho il coraggio di chiedere di sottoporsi a un provi- no. poi la cosa gira diversamente... Avrebbe dovuto esserci anche Nastassja Klnsld. In un'apparizione scherzosa, vestita con gli abiti maschili di Karl, 11 ragazzo protagonista di America di Kafka: ma non ha potuto». 1 Io al film è stata spesso per lei un mezzo d'espressione narrativa, un'altra maniera di parlare alla gente, a volte un incubo che ha accompagnato tutta la sua vita. •Avrei potuto raccontare l'Intervista come diagnosi o esame, come la confessione disarmata c convinta di un cineasta che consente a parlare di sé, del suo lavoro, del rapporto con il suo lavoro». Non è cosi? •No. Forse avrebbe potuto esserlo, ma non è cosi Non c'è alcuna polemica antigiornalistica: gli intervistatori sono giapponesi, creature fantasmatiche che non rappresentano né possono rappresentare la stampa. Non c'è neppure l'intervista, in realtà. I giornalisti giapponesi fanno domande molto precise, quando è stata fondata Cinecittà, com'era negli Anni Quaranta, quanta gente ci lavora: ma le loro domande vengono continuamente interrotte, le risposte si perdono». L'intervista è affidata alla tv, il mezzo che ha soppiantato il cinema e ha già conquistato il nostro presente; è concessa ai giapponesi che magari conquisteranno l'Europa in futuro... •Non c'entra niente, questo significato non c'è. Ho pensato a una piccola troupe televisiva giapponese che tempo fa venne a intervistarmi portandomi una lettera e un dono di Kurosawa, ho ricordato i loro sorrisi sproporzionati, la loro gentilezza, 1 loro ringraziamenti senza fine: li ho scelti come intervistatori Ideali che raccolgono le mie sciocchezze e vaghezze con pazienza incomprensiva e impassibile, con ostentata gratitudine. Ma l'intervista è appena un pallidissimo pretesto per dare nel film un minimo di verosimiglianza a un racconto che non c'è». Qua! è allora il senso del film? •Un vecchio regista annoiato che invita a cena senza offrire niente, e pretendendo pure che gli ospiti si dichiarino sazi». Meno di cero? Ma se, per simboleggiare «L'intervista», lei dovesse scegliere una sola fotografia, un'unica immagine, quale sarebbe? • Un'architettura piranesiana nerogrigia, romantica, cadente. La scenografia squallida dello studio cinematografico vuoto, del Teatro di Cinecittà disabitato: hangar, magazzino, attesa». Lietta Tornabuoni Federico Fellini durante le riprese di «L'intervista». Accanto, tre odalische in una scena del film

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