Ronconi avvince col Macbeth di Giorgio Pestelli

Ronconi avvince col Macbeth L'opera di Verdi ha inaugurato la stagione inventale della Fenice Ronconi avvince col Macbeth Regia, scene e costumi costituiscono un unico blocco di grande presa - Una vicenda sulla presenza del Male interpretata con classe da Piero Cappuccini e Olivia Stapp - Orchestra diretta da Gabriele Ferro - Unica stonatura, l'impatto del finale secondo, diluito dal sipario che resta alzato VENEZIA — Alla Fenice si è inaugurata la stagione lirica invernale con il Macbeth ài Vrr.ii sotto la direzione di Gabriele Ferro e nell'allestimento curato da Luca Ronconi e Luciano Damiani: allestimento presentato sei anni fa alla Deutsche Oper di Berlino e reputatissimo a suo tempo; per cui è da elogiare senza mezzi termini la direzione del Teatro che lo ha riproposto (sia pure con gli adattamenti del caso) anziché inseguire una novità purchessia. Regia, scene e costumi di Ronconi e Damiani costituiscono un unico blocco di grande presa, il più riuscito di quanti abbia visto di Ronconi, forse perché applicato a un'opera che tende disperatamente a sfuggire dalla sfera del melodramma tradizionale. Negli Anni Quaranta dell'Ottocento già era inusuale astenersi cosi radicalmente dalle vicende amorose e dal tema della malmaritata; ma nel Macbeth in fondo non c'è nemmeno la lotta per il potere, già adombrata nei Due Foscari e poi ripresa nel Boccanegra e nel Don Carlos; qui Verdi fissa i suoi occhi solo sulla presenza del Male, sul mistero del Male: mistero che è la sua presenza stessa, la sua realtà, e non la sua origine magica come credevano (o forse speravano) letterati contemporanei quali Andrea Maffel e Giuseppe Giusti. Macbeth e Lady sono creature dannate, prigioniere di un orrido continente che sta dentro di loro, non fuori: è questa la prima impressione che viene in mente di fronte all'essenziale, asciutta realizzazione di Ronconi e Damiani. L'impianto scenografico è di un parailelepipedismo senza speranza, molto Novecento e molto tedesco: colore fondamentale è il nerofumo, il grigio ferro, lo stesso di armi e usberghi, sul quale si staglia la fiamma sanguigna di drappi e costumi. Costumi e panneggi rigonfi e fluenti, di una materia carnosa che avvolge i due ferali protagonisti e quasi ne impedisce i movimenti; geniale, per fulminea evidenza lo stacco dal colore rosso al bianco quando, scoperta l'uccisione di Duncano, i due si presentano in candidi camicioni da notte, a protestare una ipocrita innocenza; le streghe, in abiti rinascimentali e 'acconciature a forma di sella, con veli e ricami, occupano metà della scena a significare la loro presenza 11 e adesso, nel quotidiano e non nell'irrealtà; avvincente il rilievo che viene dato al magnifico recitativo della prima scena dell'atto secondo, quando, con «feroce brevità» di stampo alfieriano, Lady e Macbeth concertano l'eliminazione di Banco, alzandosi da un letto ancora testimone di aridi abbracciamenti; efficacissimi per il movimento fatale i momenti della morte di Duncano e della battaglia finale, e la pagina del sonnambulismo in cui la scena ruota di novanta gradi presentando allo spettatore una struttura alienata nel collasso della pazzia. Unica stonatura la diluizione dell'impatto del finale secondo a causa del sipario che resta alzato; dopo il grande concertato del banchetto, senza la scure conclusiva del sipario, si trapassa direttamente nella scena dell'incantesimo (atto terzo); una rapidità accentuata dalle soste piuttosto lunghe imposte, all'interno dello stesso atto, per cambi di scena: il taglio generale ne esce un po' menomato, appena riducendo l'efficacia di una intuizione spaziale e figurativa difficilmente dimenticabile per la sua forza di scavo. Nella realizzazione musicale si alternano momenti altissimi e altri bisognosi di qualche limatura. Gabriele Ferro dirige l'orchestra della Fenice con partecipazione e incalzante energia; gli straordinari impasti timbrici della partitura verdiana (apparizione degli otto re), cosi come le Individuazioni solistiche si fanno avanti con onore; non sempre registrato a punto l'accordo con le voci, o almeno non cosi collaudato da consentire quei toni parlati, quei pianissimo che stavano tanto a cuore a Verdi. Sul palco si ammira più volte la classe dei solisti: la carica umana, la grandiosa profondità del carattere di Macbeth delineato da Piero Cappuccini, l'autorità tragica di Olivia Stapp, dominatrice soprattutto nell'obnubilamento finale: una voce un po' stanca, che ha dato tanto ma che continua a dare, con quelle asperità di timbro che in fondo si addicono al personaggio. Splendido il Banco di Nicola j Ghiaurov: i suoi ariosi • Oh qual orrenda notte», • Come dal ciel precipita- si ergono come cifre notturne dell'opera; e di primo piano la prestanza del vibrante Macduff di Vertano Luchetti. Il coro nel Macbeth è importantissimo e trascolora in mille registri, dai canti conviviali e goderecci, alle ridde infernali, ai toni eroici, al lamenti; istruito da Ferircelo Lozer, quLha, spprat-j tutta mostrato U;syq.y,a^qre:| •Patria oppressa* na commosso per finezza cameristica e intensità di sentire. Giorgio Pestelli

Luoghi citati: Berlino, Venezia