L'Aids e le nostre paure

L'Aids e le nostre paure L'Aids e le nostre paure SERGIO QUINZIO Chi fuma rischia, più di alni, il canno, e adesso sappiamo anche che chi supera i confini della più tradizionale e casta eterosessualità monogamica rischia, molto più di altri, l'Aids. Per la verità, ormai si rischia parecchio anche soltanto mangiando, bevendo, passeggiando per la città, respirando. Per tanti motivi, quasi tutto quello che ponemmo fare — ed è moltissimo, perché siamo liberi e tecnicamente evoluti — è pericoloso, e tende rapidamente ad esserci proibito. Il nosno è un mondo ritornato a essere radicalmente insicuro, com'era quello in cui la peste, il colera, la lebbra incombevano su un'umanità misera e impotente, oppressa dalla minaccia di oscure potenze invisibili. Sembra già chiusa, insomma, la breve parentesi dell'uomo cartesianamente «signore e padrone della natura» e dei propri destini. A rutto c'è rimedio, naturalmente. Cè stato anche alle più catasnofiche epidemie del passato, visto che siamo qui a raccontarcele. L'uomo vincerà anche il cancro, anche l'Aids, e verosimilmente' anche la malattia che lo colpirà quando avrà vinto il cancro e l'Aids. Vince sempre, l'uomo, ma nessuna sua vittoria, a quanto pare, migliora sostanzialmente la sua condizione: ricade sempre nella stessa angoscia, nella stessa paura, occasionata ogni volta — magra consolazione — da nemici diversi, che ogni volta vengono vinti. Nemici sempre più agguerriti, malattie più subdole, più complicate, più intrattabili. Che per propagarsi si servono magari di un mezzo terapeutico come la trasfusione del sangue, il quale diventa così mezzo contaminante. Come gli insetti e come i microorganismi che combattiamo con riuovati sempre più potenti, la malattia moltiplica e accelera le mutazioni, inventa forme nuove, più resistenti e insidiose, che si annidano sempre più profondamente nel nosno stesso patrimonio genetico. Come Sisifo, con crescente fatica spingiamo il masso che ci rotola continuamente addosso. Il niste corteo che accompagnava l'antica idea magica del contagio, ispirando la caccia agli untori, sfila di nuovo accanto a noi. Non mettiamo il campamaccio al collo degli ammalati di Aids, ma li sfuggiamo e li isoliamo come si faceva con gli antichi lebbrosi. Anche vergognandocene, saremmo probabilmente disposti a misure ancora più radicali, non solo nei confronti dei malati, ma anche dei temibili «portatori sani», che le analisi cliniche sono in grado di snidare ovunque. Di fronte alla paura, i nobili principi, deboli sempre, sono più deboli che mai, anche se è facile proclamarli a parole. Da quando speriamo in una qualche religiosa o profana redenzione della naturale condizione umana, la sottomissione al fato, che aiutava gli antichi a sopportare le loro disgrazie, non ci aiuta più, non può più aiutarci. E anche se fosse possibile, non avrebbe molto senso tornare indietro. Non accettando di essere eternamente schiavi rassegnati della natura, un tragico passo avanti l'abbiamo fatto. Adesso non ci resta che continuare la nosna strada, possibilmente avendo il coraggio di non fingere che sia diversa da quello che è. Vedremo dove ci porterà.