Muti, grande musica per il papa

E'tutto ribollir E'tutto ribollir Muti, grande musica per il papa Una partitura di rara esecuzione, complessivamente piacevole, con fugaci momenti di notevole bellezza Rispetto all'inverno scorso, ce n'è di più. E la differenza si nota anche da quell'altra primavera. Ce n'è di più di Tini Camino, che comanda le ragazze di «Drive In», non a caso lo spettacolo televisivo che anche se non ti piace non puoi fare a meno di vedere. Non che sia gonfiata, attenti: che è come il bue di Carrù, tutta roba di qualità tirata su a uova strapazzate, niente che vedere con i colleghi danesi che pascolano, pascolano, ma basta una Cernobil per metterli in crisi. Nei suoi terrificanti coprisopra e coprisotto, più che vestita sembra ormai trattenuta. Non c'è un solo istante delle sue apparizioni, in cui uno non tema un'esplosione liberatoria e scatenante: forme e forze che violenterebbero senza scampo tutti quanti i maschi eterotv rimasti. Eppure non è sexy, e neppure sensuale, men che mai lussuriosa. Sta lì sul video ad illustrare come, dai nostri primordi, abbiamo immaginato la donna. Forse Tini C'ansino è l'ultima pin-up che ci è rimasta. Sarebbero quelle ragazze che una volta mettevano sui calendari, una per ogni mese. Non dovevano somigliare a nessuna diva, tant'è che nelle versioni più raffinate erano disegnate precorrendo — siamo negli Anni Quaranta — la corrente pittorica iperrealista: nel senso che sembravano proprio vere e invece no. C'era insomma margine per alimentare sogni: a ciascuno restava lo spazio per trasformarle a seconda dei proprii ideali. Diventavano sexy, realmente, solo nelle fantasie che sono cosa ben più oscura e peccaminosa dei sogni per via del fatto che si fanno anche ad occhi aperti o comunque a tv accesa. Tant'è che avevano sempre su costumi da bagno a un pezzo, oppure abbondanti bikini. Ma funzionavano. Per sognare la Mary lontana, i marines le incollavano sui mezzi da sbarco verso Okinawa e, sulle mitragliere che li falciavano sulle spiagge, c'era una Butterfly, _ cosi in Normandia, sui pan- ' zcr, ad attenderli avevano trovalo Lili Marleen. Le pin-up si sono guastate con l'avvento del nudo pubblico. Tra le anonime iniziatrici di questo deleterio progresso sessuale, nivea su un velluto bordeaux nel mese di febbraio o marzo di trent'anni fa, ci fu Norma Jean Baker che ancora non sapeva che sarebbe diventata Marilyn Monroe. Adesso i calendari nudi sono addirittura firmati e personalizzati: Ornella Muti messa cosi, nonna Lualdi sdraiata costà, perché non Amanda Lear e il coccolatissimo Eva Robin nel primo piano senza-trucco-e-senza-mganno? Forse Tini è l'ultima pinup dei tempi andati, la prima di quelli televisivi Rifiuta il voyeur, non teme paragoni perché a proposito di sogni le rivali hanno idee confuse: come Carmen Russo che sconfina nell'incubo. Tini si propone (giuliva, improbabile, impossibile, infantile e quindi innocente all'eccesso) attraverso architetture fantastiche chiamate a intersecare ettari di polpa soda e pelle perlacea. Mai un sospetto di peluria, un'ombra complice. Dalla vita in su, sgomenta per le campate aeree eh» non finiscono mai di stupire come il ponte di Brooklyn; dalla vita in giù, ha frontalmente rilevanti strutture barocche che ricordano le cinture di castità ovviamente triangolari di Lily St. Cyr (non è una cattedrale, ma una regina del burlesque), e posteriormente, grazie allo stile tango, svela la callipigia grandezza di Moore (non è un pugile, è uno scultore). La zia presunta, Margarita Carmen Cansino in arte Rita Hayworth, per farci sognare usò abiti di seta nera e guanti lunghi, ma lo fece nelculto della sua personalità, ed ebbe copioni ben scritti, e partner celebri come Fred Astaire nel ballo, Glenn Ford per il dramma. La nipote Tini Cansino, dice battute cretine con l'aria da scema e spesso le capita con Massimo Boldi. Eppure riesce a impersonare quella donna dei sogni dove, come insegna Felhni, tutto è spropositato, sproporzionato, abnorme, ma non mette soggezione. Niente, nella sua sapiente rappresentazione di video pin-up, è ambiguo o torbido. E le telespettatrici non soffrono di gelosia. Incontrandola nella realtà, infatti, qualunque uomo di buonsenso ne sarebbe terrorizzato. che quasi te la danno a bere. Queiro//ertorittni è convenzionale senza dubbio ma suona in una Messa cosi spaesato; pare quasi di trovarsi di fronte a uno di quei cori di contadine tirolesi che in un'Opera cantano le dolcezze del mattino o altre amenità decorative. Sembra di esser capitati anzitempo in un fantastico retrobottega dell'opera romantica dove pezzi di carattere, quadretti e scenari vengono confezionati con incredibile ed anonima bravura. La sorpresa più grande consiste nel fatto che in quei temi cosi garbati ed in quelle atmosfere tanto soavi ci senti di tutto: alla lontana si riconoscono le inflessioni del tematismo di Schumann e talvolta perfino di Brahms. C'è però una pagina di questa partitura di Cherubini, l'ultima per l'esattezza, la cui bravura spettacolare mise tutti nel sacco, compreso il tremendo Beriloz. La Messa termina con una Marche religieuse destinata ad accompagnare 1 passi di Re Carlo X che si accostava alla Comunione. Certo non capita tutti i giorni di vedere un sovrano accostarsi ai sacramenti ma il fenomeno si può osservare anche con 1 comuni mortali. Mai notato in chiesa come camminano coloro che si accostano ai sacramenti, specialmente quando ritornano al loro posto dopo essersi comunicati? Peccato si debba toccar terra coi piedi, avere un corpo in cui restringersi e non poter volare via come un angelo. Con la sua Marche religieuse Cherubini sembra togliere di mezzo l'impaccio corporeo di questi momenti supremamente imbarazzanti; la musica si srotola come un tappeto magico, dipinto con tinte soavissime sul quale si può procedere come avendo le ali ai piedi. Non sarà un miracolo di ispirazione ma un miracolo di bravura si e per questo il nostro Cherubini riscuote ancor oggi un giusto tributo di ammirazione. ROMA — Dopo aver dominato per un'ora come un sovrano una massa imponente di musicisti formata dall'orchestra della Rai di Roma e dai cori congiunti della Rai di Roma e di Torino, Riccardo Muti si è volto verso il pubblico e con l'aria compunta di uno scolaretto se n'è rimasto fermo sul podio col capo leggermente chino. In mezzo all'immensa sala Nervi il Papa si è alzato e ha preso la parola: ringraziamenti e parole di lode per 1 musicisti e per il direttore e perfino un breve cenno storico per ricordare che la Messa in la maggiore fu composta e diretta da Luigi Cherubini nel 1825 nella cattedrale di Reims per l'incoronazione di re Carlo X. Cosi a tanti anni di distanza quella stessa partitura è servita per incoronare Riccardo Muti elevandolo alla dignità di un sovrano della musica. Senza l'occasione di Incoro nazioni reali o metaforiche la Messa in la maggiore di Che' rubini la si ascolta molto di rado ed i giudizi su di lei correnti da parte degli storici della musica non sono tra 1 più lusinghieri; eppure quest'opera suscitò a suo tempo ammirazione e consensi grandissimi, anche da orecchie esperte come quelle di Schumann e di Beriloz. Che effetto produce sull'ascoltatore di oggi, criticamente scaltrito ed avvezzo a muoversi tra 1 capolavori come se fossero oggetti domestici? La prima ed innegabile impressione è quella della piacevolezza: non solo perché l'orchestrazione è varia e raffi nata e il trattamento della parte corale disegnato da mano espertissima ma soprattutto perché i temi sono suadenti ed immediatamente comunicativi, ma che cosa comunicano? Nelle parti più tradizionalmente celebrative come il Kyrie e il Gloria, ed in parte anche del Credo, i temi hanno configurazione semplice e lineare: sono temi che si innalzano verticalmente come razzi festosi oppure che si dipanano tranquillamente attraverso il gioco del- 13,30 13,55 14 — 14,15 15 — 15,30 16 — TelegioTgl TraProntovarietà Rami, cSpeciaLunediCronac II Papa si complimenta con gli orchestrali al termine del concerto le ripetizioni con begli effetti di eco e ripetizioni ostinate di clausole ritmiche e melodiche. Tutto è semplice e netto, elegante ed efficace e rivela la mano esperta nell'allestire cerimonie sonore di sicuro effetto. Inutile dire che si tratta del Cherubini più freddo e ROMA — Valeva la pena ritirare dal dimenticatolo un lavoro come «Agnese di Hoenstaufen» di Gaspare Spontini, rappresentato rarissime volte (l'ultima, nel 1970, (u data solo in forma di concerto), e Impegnarvi produttivamente una cifra che, secondo quanto detto alla vigilia, si aggirerebbe sul miliardo e 700 milioni di lire? Sono interrogativi che affioravano tra II pubblico nella serata di apertura dell'«Opera» di Roma, la cui nuova stagione è cominciata ieri, appunto, con l'opera di Spontini. La rappresentazione, ha richiesto un grosso sforzo da parte dell'ente lirico romano dato l'apparato spettacolare e coreografico, evidenziato da grandi scene di massa, caratteristica dell' «Agnese eli Hoenstaufen». L'opera che fu concepita dal compositore italiano in Germania, su libretto di Ernst Raupach, In un periodo In cui si strizzava l'occhio alla «grand opera» francese, non ha fornito una risposta convincente. Il pubblico ha applaudito i momenti più belli, e ha salutato caduco, abilissimo ma anche non poco stucchevole. Malgrado tutto quel formalismo e tutto quell'appretto il musicista di razza vien fuori però di tanto in tanto irresistibilmente. Tra le buone maniere di quel Credo spunta d'un trat¬ to con il Cruci/ixus una frase oscura, discendente, quasi mormorata, che può essere opera solo di un maestro visitato dal dono supremo dell'ispirazione. I momenti belli sono fugaci purtroppo e si torna a navigare tra buone maniere talmente eccellenti L'azione è tratta dalla storia medievale e da fosche leggende feudali. E' la vicenda di Enrico VI che si oppone violentemente al matrimonio fra sua nipote Agnese e il ribelle Enrico di Brunswick. Il tutto comunque concepito in proporzioni mastodontiche dallo scenografo Nicola Rubertolti, dal costumista Maurizio Monteverde, dal regista Antonio Calenda, al suo secondo impatto con la lirica dopo «HerooVado», sotto l'abile direzione oschestrale di Maximlano vaine», I cantanti, in tanta tensione immaginativa, hanno fatto fatica a tenere dietro a un apparato che storicamente rappresenta il punto di congiunzione con l'incombente wagnerismo. In alcuni brani, specie nel secondo atto, le matrici italiane di Spontini rivelano la loro effusione lirica. In queste pagine, (ad esempio il duetto di Agnese con la madre nel primo atto), il prestigioso soprano Monserrat Caballé, nella parte della protagonista, ha fatto valere tutta la sua classe.