Specchio magico di una città di Guido Ceronetti
Specchio magico di una città RITRATTI DI MARIO MONGE IN MOSTRA E IN VOLUME Specchio magico di una città TORINO — Di Mario Monge, il torinese messicano, Fotografia & Grafica, esce un volume Ritratto di città con persone (titolo deviante; in realtà è Ritratto di città attraverso il ritratto) edito dall'Irmerwil International Club, e si è aperta una mostra, anche questa di ritratti, presso la Libreria Campus, noto ritrovo torinese per chi guarda, legge, ascolta e ha voglia d'incontrarsi. Il libro è una curiosità per i torinesisti; invece delle eterne Torri Palatine contiene venti interviste, a cura di Giorgio Martellini, con personaggi notissimi della vita cittadina, e i relativi ritratti: Bobbio, Vattimo, Mila, Regge, Testa, Arpino, Fruttero-Lucentini (naturalmente insieme e accontentati nella loro prima e ultima volontà di non essere belli), Primo Levi, Rita I^-Monuddni, Giulio Einaudi, Zanone, Boniperti, Pichetto, Barrati, la danzatrice Cohen, Paulucci, Claudia Matta, Firpo, Pininfarina e Giorgetto Giugiaro. C'è mezza Slampa in questi scompartimenti di prima classe... Manca l'Arcivescovo, che significa pur sempre qualcosa, come capo della minoranza cristiana, manca Gustavo Rol, che è uno Zaddlk e camminando su una corda tesa sopra lo smog che avviluppa la città ne tiene lontane le nubi cariche di pioggia di fuoco, mancano Suor Giuliana del Cottolengo e Natalia Ginzburg, e i poco noti, e gli ignoti che contano, e gli ignoti che non contano niente, quali non si contano. Gettando le reti senza nessun scopo, si poteva tirar su dello straordinario. Tuttavia la rappresentanza illustre è cospicua: il ritratto di Bobbio è di quelli che non si dimenticano, quello di Tullio Regge è del Cinema fantastico, un'immagine da S tran amore; Armando Testa in una nitida visione geometrica incoraggia l'ipotesi che il moderno emblema cittadino non sia affatto un toro (macché tori) ma il Punt e Mes; Vattimo cerca forse nella torinesità un appiglio, un compenso alla Heimatlosigkeit heideggeriana; Arpino vorrebbe un Centro fat¬ to di periferie perdute; Einaudi, nel viso raso da secolo libertino, non dimostra i suoi cinquanta e più anni di Catalogo. Per conoscere meglio l'arte di Monge, è consigliabile una visita alla Campus, che ha ritratti di varie epoche e liberi dalla costrizione di committenza. E qui non mancano i poco noti e i veri, i nobili sconosciuti, e scompare il limite cittadino. C'è perfino qualche preziosità di nudo femminile, per dare aria e aroma. Curioso è un Italo Calvino del 1972, interprete della carta del Bagatto, in un Tarocco ritrattistico rimasto in¬ compiute (anzi naufragato: non si scherza col Tarocco) e mirabile un Gazzelloni col traverso, più che un flautista l'avatar del Flauto: se il Traverso volesse comparire a qualcuno, assumerebbe forma di Gazzelloni. Imponente e scettrato i Asturias, di cui non ho mai letto però una sola riga, per il terrore che m'ispira — salvo Borges — la letteratura sudamericana, con i suoi tremendi Mato Grossi di pagine. Chi ama la Velata di San Pietro in Vincoli la ritrova li associata al pittore Carlo Cattaneo, smascherato da Monge come l'autentica Iena di San Giorgio. Le possibilità di un fotografo non evadono dal campo del bianco e nero: si giocano tutte U. Volume e mostra sono in bianco e nero, con qualche uscita nel colore tra le cose esposte. Monge, tuttavia, un piede nel colore lo tiene bene, a volte con risultati stupefacenti, che rompono la volgarità del mezzo, quando si tratta di luoghi, oggetti, montaggi, fantasie intomo al corpo, teatro, travestimenti. Il Messico, da lui interpretato col colore, è un castello di insolitissime carte, un bel viaggio visionario. Non c'è l'atmosfera di Figueroa, il miracolo di "fisse, ma l'epoca, anche, è diversa. E Mario Monge ha colto, in diapositive a colori e in pose in bianco e nero — e gliene sono grato — l'elemento inquietante, l'inesplicato, che si nasconde nelle umbratili marionette del Teatro dei Sensibili. Guido Ceronetti
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