La Svezia sconfitta da un assassino di Mimmo Candito

La Svezia sconfitta da un assassino Dopo nove mesi le indagini sul delitto Palme sono ancora ferme al punto di partenza La Svezia sconfitta da un assassino Ventinovemila documenti d'inchiesta, 1250 sospetti interrogati, 330 agenti al lavoro ma anche un lungo elenco di ritardi, errori, impreparazione - Dalla ipotesi del gesto di un folle alla pista politica - Un fallimento che ha incrinato il mito di una società efficiente Quando l'Ispettore capo Hans Holmér tenne la prima conferenza stampa, 11 2 marzo, poche ore dopo l'assassinio di Olof Palme, i giornalisti giunti nella notte da ogni parte del mondo furono sistemati in una stanzetta di pochi metri quadri con due finestroni alti e stretti sul cielo grigiastro di Stoccolma. Aveva smesso di nevicare, e il sangue del premier era rimasto a macchiare il marciapiede imbiancato dal gelo in un angolo di Sveavagen, accanto alla cartoleria Dorima. Una transenna di legno e decine di mazzi di rose segnavano il luogo del delitto; e appiccicato al muro con una piccola striscia di scotch un pezzo di carta grande quanto metà pagina di un quaderno chiedeva: .Perché è stato ucciso un vero democratico?.. Le poche parole erano scritte a penna, su due righe storte. Holmér ha una bella faccia scandinava, lunga, magra, piena di rughe, sembra un attore malinconico di Bergman; e le parole che disse in un inglese timido ma preciso parevano voler rappresentare solo la saggezza della cautela. 'Nessuna pista é esclusa- disse, e sembrava in quel momento che non potesse comunicare altro per non rivelare il corso reale delle Indagini. Ma che il risultato finale fosse comunque a portata di mano, forse solo questione di ore. Anche se i giornalisti stavano ammassati fin nel corridoio e una cinepresa ronzava rumorosamente, non c'era la tensione dei grandi drammi che toccano un Paese che perde il suo leader. Non l'angoscia attonita della morte di Kennedy, e non il senso oscuro di tragedia che accompagnò il ritrovamento del cadavere di Moro. Piuttosto, l'aria rassicurante, e anche un po' casalinga, di certi piccoli commissariati di provincia, dove tutti i manigoldi sono già schedati e non accade mai nulla di troppo clamoroso. E non soltano per la faccia familiare di Holmér, il suo tono rilassato, il cardigan di lana blu con il quale si presentò a parlare, e la camicia aperta sul collo. Lui, il suo stile informale, la piccola stanza di retrobottega, la sdrammatizzazione naturale — non artificiosa — che si coglieva in quel breve Incontro di mezzogiorno, apparivamo anche come l'immagine ovvia del Paese dove l'efficienza è un mito sicuro, e dove la società realizzata viene vista quale esemplo quasi perfetto d'una integrazione tra bisogni individuali e scelte collettive. Fuori da quella stanzetta però si respirava ben altra aria. Il pellegrinaggio a Sveavagen era formato da una folla che si rinnovava ogni minuto, e nel vecchio palazzo della prefettura che s'affaccia sui venti del porto, dove un grande libro raccoglieva le firme del cordoglio, la coda di cittadini in attesa si allungava per quasi un chilometro. C'erano vecchi e giovani, le donne col cappotto fino ai piedi contro l'aria gelata che veniva su dal mare, e gli uomini impellicciati, imbacuccati, inguantati, col bavero sul naso. C'era un silenzio impressionante. E alle domande, quella gente rispondeva sempre allo stesso modo, scrollando la testa: .•Sarà stato un passo-. Eppure non c'era un contrasto reale tra le parole di quegli uomini e di quelle donne e la tranquilla semplicità della stanzetta arrampicata nel torrione della centrale di polizia. Il comportamento di Holmér dava le risposte della •Svezia-istituzione», che regge un Paese dove il tasso di criminalità è tra i più bassi del mondo e i rapporti tra legge e costume sono forse i più avanzati e i più aperti del nostro tempo. Quella gente che stava silenziosa in coda per lunghe ore dava le risposte della .Svezia-società», che regge la sua storia (o comunque la reggeva fino a quel giorno) sulla convinzione che la razionalità sia anche la garanzia del futuro, la protezione più salda contro le tentazioni dostojevskiane. Per centosettant'anni la Svezia è stata un Paese di pace, e la violenza che 1 tempi si trascinano nella trasformazione traumatica dei modelli e dei costumi l'ha sfiorata soltanto. Il sistema sociale, la geografia, la cultura di questo Paese, la sua etica, hanno creato forme di assorbimento delle tensioni che si sviluppano nella storia d'ogni giorno tra gruppi, tra individui, tra classi, immaginando canali istituzionali o pragmatici di scarico dei contrasti troppo forti. La .diversità» svedese aveva la consapevolezza e l'orgoglio di un modello che venta una sintesi illuminata tra le aspettative di ciascuno e le risposte possibili del sistema; e a sovrintendere a questa sintesi difficile c'era sempre la certezza ras¬ sicurante di un principio di razionalità. La violenza poteva anche trovarvi spazio, ma la sua espressione veniva legata soltanto all'inceppo privato di un singolo e non alle relazioni o alle impossibili concause sociali, politiche, anche geopolitiche. Holmér e la gente di Stoccolma indagavano perciò anzitutto sulla follia di un istante e di un esaltato, perché questo ridava conferma della razionalità del sistema e della sua superiorità. Volevano comunque che cosi fosse. Ma già al terzo giorno delle indagini la bugia collettiva veniva intaccata dai risultati dei primi accertamenti: e l'idea di un complotto, o in ogni caso di un'organizzazione di più persone che avevano studiato, preparato, e ucciso in quella notte dell'ultimo venerdì di febbraio, si sovrapponeva aspramente alla sagoma incerta del disperato isolato che spara e scappa col favore del buio. Dalla stanzetta scomoda e affollata nel torrione si passò a una grande sala piena di poltrone, di tavoli e di microfoni, mentre il numero del giornalisti cresceva e le telecamere ■ diventavano un occhio ravvicinato sui tic e sulle incertezze del sistema. In tre giorni soltanto, l'immagine di efficienza, la superiorità della razionalità, la qualità di una preparazione scientifica, basata sulla fredda logica dei popoli settentrionali, si frantumarono drammaticamente. E la polizia di Holmér rivelava falle, ingenuità, approssimazioni. Si scopri la completa impreparazione a reagire con 1 tempi e i modi dovuti a una situazione di emergenza co¬ m'era stata quella del 28 febbraio. Non solo il ritardo a identificare 11 premier colpito e la moglie Lisbetti ferita, ma anche l'incredibile lentezza con la quale viene avviata la ricerca del colpevole (o dei colpevoli): nessun blocco nelle strade, nelle autostrade, nella vicina stazione ferroviaria, o nell'aeroporto; nessuna recinzione di quell'angolo dannato di strada per scoprire eventuali tracce; nessuna ricerca immediata nella zona della fuga; trascuratezza nel recupero degli Indizi; lentezza nello scandaglio di ipotesi alternative al delitto isolato. Fino all'assurdo del proiettili rinvenuti da due passanti, e a quel bossolo indicato da Holmér come 'Stranissimo, mai visto nei nostri archivi, di provenienza certo mediorientale- e che invece chiunque può comprare in qualsiasi negozio d'armi di Stoccolma. Attaccato, criticato, contestato duramente, il corpo di polizia della capitale mette sulle piste del killer 330 ispettori, dopo che cinquemila poliziotti hanno dato un primo appoggio all'avvio delle Indagini. E si comincia a battere seriamente anche 11 terreno infido dell'immigrazione, che dai tempi lontani della guerra in Vietnam cresce ormai di circa 25 mila unità all'anno, in gran parte profughi politici. Ci sono 5 mila curdi, 17 mila turchi, 4 mila iraniani, 13 mila arabi, 40 mila jugoslavi, 33 mila latino-americani; e questa è solo l'anagrafe ufficiale, perché poi la stima dei residenti più o meno clandestini andrebbe almeno raddoppiata. E dal '73, il numero di bombe, attentati, vendette interne ai vari gruppi di rifugiati, inquina decisamente la tradizione di tolleranza politica di questo Paese. La fantapolitica attanaglia lo svolgimento dell'inchiesta, e dietro i primi sospetti di un possibile attentato terroristi co si comincia a snocciolare l'elenco solito dei possibili mandanti, spesso anche con traddittorio: la Cia disturbata dall'eccessivo dinamismo neutralista di Palme; il Kgb preoccupato delle difficoltà in un traffico d'armi e dal filo-occidentalismo del primo ministro; gli ayatollah che non vogliono la mediazione di Palme nella guerra del Golfo: una fazione dell'estremismo palestinese che non accetta la logica del compromesso alla quale l'ucciso pareva voler convincere Arafat. E poi ancora: gli ustascia che non perdonano il rigore della legge svedese; i curdi che hanno due dei loro in prigione in Svezia e vogliono vendicarsi; i neonazisti che vedono in Palme l'uomo di Mosca. Ogni ipotesi può essere quella buona, e ognuna si può anche intrecciare a molte altre nella creazione di alcune variabili che le infiltrazioni dei servizi segreti rendono praticamente incontrollabili. In aggiunta, se si vuole restare sul terreno ampio della violenza Ideologica, Intellettuali, sociologi, scrittori parlano anche del clima inusitatamente aspro, troppo teso, intollerante, che ha assunto il dibattito politico nel Paese sotto la spinta rìgida e l'intransigenza di Palme. E disegnano uno scenario dove certe antiche radici di fanatismo possono avere anche prodotto l'esplosione di un colpo che in realtà è stato sparato da molte mani per molti odi. Ora sono passati nove mesi. Sono stati archiviati 29 mila documenti d'indagine, 1250 sospettati o indiziati sono stati interrogati e poi rilasciati, un uomo è stato anche arrestato tra grandi annunci ma poi scarcerato con molte scuse, 360 nomi sono sorvegliati speciali. E tutto è fermo a quella notte e a quella Smith & Wesson 357 magnimi che chiusero la storia di Palme. E' molto? E' poco? Guardando all'archivio della nostra memoria comune, e ai tanti leader politici assassinati, forse mai le inchieste sono state semplici, rapide, conclusive; e anche là dove alla fine un killer è stato scoperto, i sospetti, i dubbi di interpretazione, la reale identità dei mandanti sono stati sempre un'ombra sull'ultima pagina dei fascicoli processuali. Certo, che le indagini sull'assassinio di Palme siano ancora tutte in questa descrizione di Holmér: -Il killer è sui 40 anni, alto circa 1,70, forse magro, forse ancora in Svesia-, è deludente. Restano troppe le Incertezze, e troppi i dubbi. Ma quello che soprattutto si coglie dietro queste parole è che un'illusione ormai è stata consumata. Come ci diceva in quei giorni di marzo lo scrittore Arne Ruth: -Con la morte di Palme è morto anche il sogno della Svesia come eccesione. Ora ci siamo svegliati dal nostro lungo sonno: e la luce del giorno è terribile-. Mimmo Candito

Luoghi citati: Holmér, Mosca, Stoccolma, Svezia, Vietnam