Wagner? E' come De Filippo di Massimo Mila

Wagner? E' come De Filippo Ha debuttato al Regio F«Oro del Reno»: il realismo prevale giustamente sul mito Wagner? E' come De Filippo TORINO — Con un gesto coraggioso, U Regio apre la stagione con L'oro del Reno, prologo all'Intera Tetralogia wagneriana da esaurire in due anni e da riprendere poi. se sarà possibile ricuperare gli artisti, in un ciclo consecutivo. Cosi, senza nessuna delle solite noiosissime sollecitazioni di anniversari da celebrare. Semplicemente perché se ne sentiva il bisogno, a saziare la fame wagneriana del pubblico torinese. Questa si che è cultura, e buona direzione, artistica d'un teatro; non la cultura dell'almanacco. La direzione musicale è affidata a Zoltàn Pesko, la regia a Gianfranco De Bosio (assistente Boris Stetka), scene di Attila Kovacs, costumi di Santuzza Cali. Essi hanno lavorato in concordia d'intenti col proposito di ricondurre l'azione nel mito, come in verità si è sempre fatto, salvo due casi noti e recenti di regie che hanno preso alla lettera l'interpretazione di G. B. Shaw. Questi vedeva nell'Anello «un dramma di vita moderna, ove meglio sarebbero stati a posto i costumi moderni: cappelli a cilindro invece del Tarnhelm, stabilimenti industriali invece della Nlebelheim, ville invece del Walhalla, e cosi Dia,.. Intuizione giustissima, che L'anello del Nibelungo è ve ramente una vichiana storia universale ed eterna dell'uomo e va inteso nel senso del più potente realismo. Basta pensare, per restare qui nell'Oro del Reno, alla lamentela coniugale di Fricka e alla sua interpretazione borghese del Walhalla: «Una dimora signorile, con comode suppellettili-, che avrebbero dovuto stringere Wotan «a riposante indugio^. Altro che mito! E si attira la memorabile risposta di Wotan: «Chi vive ama il viaggio e il mutamento». Oppure, nella quarta scena, quando gli dèi derubano Alberico di oro. elmo e anello, Loge «gli fa vedere, schìoc can'lo due dita, il genere di riscatto* che deve pagare. Siamo a un livello di reali smo da De Filippo o da West side Story, a riprova che soggetto del ciclo nibelungico non è il mito, bensì l'uomo. L'aveva inteso perfettamente Proust: «Più Wagner è leggendario, più lo rroro umano; il più splendido artificio dell'immaginazione non mi sembra in lui che il linguaggio simbolico ed efficace di verità moralU. L'errore delle regie dissacratrici non è un fraintendimento dei significati wagneriani, ma è soltanto l'ingenuo tdsrrssnd tentativo di riciclarli in soldoni spiccioli, togliendo allo spettatore avveduto il piacere sopraffino di spogliare la realtà umana e storica che sta sotto il velo del mito. Insomma, il mito non è la sostanza dell'arte wagneriana, ma è la forma in cui il dramma dell'uomo si presenta alla fantasia del creatore. I valori della presente esecuzione, sia per la messa in scena, sia per l'interpretazione musicale sono bilanciati a seconda della funzione ch'essa amspsimendms attribuisce al mito. Quando il mito è inteso come sostanza stessa del dramma, allora si producono fasi di nebbioso simbolismo e di parsimonioso impiego del colorito musicale, mentre tutto si mette a fuoco e s'impone in maniera trascinante quando la realtà prende il sopravvento sul clima misteriosoflco e la vicenda ■troppo umana» dell'Anello sbuca fuori dall'uovo del mito inteso come fabbrica di sogni, affermando quella «quotidianità dell'essere nel mon¬ ds do' che è dichiarata meta della regia di De Bosio. Le scene di Kovacs e i costumi della Cali non contraddicono il fondamentale realismo dell'opera. Soltanto la prima scena convince poco con quelle Figlie del Reno sospese in alto a mezz'aria come angioletti, mentre Alberico, che è sulla terra e quindi dovrebbe star sopra e affacciarsi sul Reno, sta sotto e coabita in acqua con le Ondine. Assai suggestivo il prato sassoso della seconda e quarta scena, con le buche che danno sul mondo sotterraneo dei Nibelunghi e la visione lontana del Walhalla, forse un po' pallida e diafana in confronto alla corposa maestà del corrispondente motivo conduttore. Eccettuata una Figlia del Reno triestina, la compagnia di canto è tutta di stranieri (non necessariamente tedeschi). E' assai buona e soddisfa pienamente. Un po' perché Alberico è il personaggio più drammatico e determinante in questo Prologo, un po' perché il cantante è veramente bravo, il basso Hartmuth Welker merita la prima menzione. Ma l'altro basso Boris Bakov è un Wotan autorevole, il tenore Graham Clark è un Mime giustamente lamentoso e piagnucolante, mentre l'altro tenore Manfred Jung canta fin troppo bene per Loge, cui si attribuisce di solito una recitazione più spezzata, quasi isterica. Le tre donne, anzi, dee, Marga Schiml, Lucy Peacock e Ortrun Wenkel, interpretano ottimamente le realistiche parti di Fricka e di Freia e quella, invece interamente mitica, di Erda. Stella Doz, Camilla Ueberschaer e Czeslawa Slania sono le coraggiose Figlie del Reno che cantano appese a corde invisibili molti metri sopra i livello del palcoscenico. Pure positivo è l'apporto dei bassi Peter Meven, Malcolm Smith e Oskar Hillebrandt rispettivamente come Fasolt, Fafner e Donner, e del tenore Christer Blandin come Froh. Una menzione particolare si deve fare questa volta del personale di palcoscenico del Regio, che ha realizzato appuntino le titaniche operazioni dei cambiamenti di scena escogitati dalla regia di Kovacs con un ingegnoso impiego delle moderne risorse del teatro. Lo spettacolo ha avuto naturalmente un buon successo, forse non cosi esplosivo come la lunga fame dei wagneriani torinesi avrebbe potuto far presagire. Massimo Mila

Luoghi citati: Torino, Zoltàn Pesko