Il tirannicida e l'onore di A. Galante Garrone

Il tirannicida e l'onore DOPO LA POLEMICA SUL MONUMENTO A BRESCI Il tirannicida e l'onore Continuano a piovermi addosso, per quel che ho scritto a proposito del monumento a Bresci, recriminazioni e accuse da parte di giornaletti monarchici. Avevo detto e ripetuto a chiare lettere che quel che mi aveva indotto a prender la penna in mano era l'assurdità giuridica di un processo penale — fondato sugli articoli del codice, oggi posti a tutela del Presidente della Repubblica — per T'Oltraggio» che sarebbe stato recato alla memoria di un monarca di fine Ottocento. Contro questi miei argomenti, in linea con l'insegnamento della Corte di Cassazione, nessuna seria obiezione è stata sollevata. E a me questo basta. Ma la polemica si è allargata ad altri temi più generali E vale forse la péna di aggiungere qualche considerazione. Fuori dell'Ipotesi dell'attualità di un comportamento penalmente rilevante, il problema prima di tutto morale (ma anche politico e storico) 6 sé sia lecito uccidere 11 tiranno, e, di conseguenza, approvarne o esaltarne l'uccisione. C'è chi al quesito dà questa risposta perentòria: no, neppure il peggiore dei tiranni va mai ucciso, neppure un Hitler; anche l'attentato del 20 luglio 1944 contro di lui è da condannarsi; il comandamento di «non uccidere» ha un valore assoluto, come ha sostenuto Luigi Pedrazzi sul Messaggero. Ben piti problematica è invece la risposta di Norberto Bobbio, che su queste colonne ha posto in luce la difficoltà di una soluzione del problema morale, e la primaria necessità di distinguere, perché ogni caso è diverso da tutti gli altri. Io penso che la risoluzione del problema debba essere affidata, volta per volta, alla coscienza di ciascuno di noL Quello che,- come cultore di storia, sento di poter dire — sulla scia di Bobbio — è che ogni caso va esaminato a fondo nella sua irripetibile specificità. Un esemplo, fra i tanti che si potrebbero fare: Guglielmo Oberdan. A un lettore era sembrato che io lo mettessi sullo stesso piano di Bresci. Come avevo già detto In un precedente articolo, 1 due casi erano ben diversi Non giungo a dire, come parve a Carducci e alla leggenda intessuta sul martire triestino, che Oberdan non ebbe mai il proposito di attentare alla vita dell'imperatore asburgico, e andò a Trieste «non per uccidere, ma per essere ucciso'. Certamente egli sapeva che, comunque andassero le cose, lo attendeva 11 patibolo. Ma la verità è che egli mazzinianamente sdegnava le parole rimaste tali, non seguite dall'azione. Si sentiva predestinato a compiere ciò che gli altri non osavano. Fu, nel 1882 (l'anno della Triplice Alleanza), l'occasione del quinto centenario della cosiddetta «dedizione» della sua città natale ai duchi d'Austria, e della annunciata visita di Francesco Giuseppe a Trieste, che lo decise a par-, tire per la sua missione. Sorpreso a Ronchi in possesso di un'arma e di due bombe, per la denuncia di due falsi irredentisti, rivendicò fieramente, dinanzi ai giudici, il suo proposito. Aggiunse, e dobbiamo credergli: «Non avrei sparato contro l'imperatore se fosse stato tra il popolo; già il popolo a Trieste non gli sarebbe corso dietro». Su questo suo impavido contegno si rileggano le belle pagine di Giani Stuparich. Confesso di essere crésciuto nel culto di questo giovinetto eroe, che ben sapeva di andare incontro al sacrificio suprema In molte famiglie educate al rispetto delle tradizioni risorgimentali, l'ammirazione per Oberdan non andava disgiunta dalla devozione per casa Savoia. E' stato anche il caso mio, come di non pochi della mia generazione. Solo l'imbelle arrendevolezza (a dir poco) del re Vittorio Emanuele m di fronte al fascismo ha incrinato e poi dissol to. anche nella mia famiglia, quel sentimento dinastico, cosi vivo specialmente nel vecchio Piemonte. Ricordo le severe, accorate parole che mi diceva Francesco Ruffinl, nei suoi ultimi anni Posso comprendere chi ha creduto di dover restare fedele a quel trono su cui pur gravano tante responsabilità Ma avrei voluto che, anche nelle polemiche di questi ultimi giorni ci fosse stato almeno un accenno alle non dimentlcabili colpe regali una sia pur blanda critica, un turbamento di coscienza. Invece no. O le più piatte glorificazioni retoriche, o, peggio ancora, il silenzio complice. E 11 peggio è che, perfino in sede storica, si comincia a stendere un velo complacente sulle peggiori vergogne, e si gabella la fuga a Pescara dell'8 settembre come un saggio accorgimento politico-militare. Va detto chiaramente che in quelle ore supreme l'onore militare fu salvato non dalla monarchia e dal suol seguaci ma dai granatieri di Porta San Paolo a Róma, dalle truppe di stanza a Cefalonla che, dal loro comandante all'ultimo soldato, si ribellarono agli ordini impartiti dall'alto, e anche da tutti quei monarchici che ci trovammo a fianco durante la Resistenza. A. Galante Garrone

Luoghi citati: Austria, Pescara, Piemonte, San Paolo, Trieste