Einaudi e le pecore zoppe

Einaudi eie pecore zoppe FOGLI DI BLOC-NOTES; CULTURA E POLITICA Einaudi eie pecore zoppe / T A firma dà decreti in <\ I j giorno fisso fu la sola ' consuetudine che non rispettai...». Così Luigi Einaudi annota nelle sue riflessioni retrospettive sull'esperienza dei sette anni al Quirinale, che l'ex capo dello Stato affidò, nell'agosto 1956, alle pagine fedeli della «Nuova Antologia» (fedeli fin dall'alba del secolo), dopo una prima e quasi iniziatica «comunicazione» all'Accademia dei Lincei, tenuta nella qualità di «socio». Sotto un titolo che, nel suo arcaismo e nella sua ricercatezza, era tutto einaudiano: «Di alcune usanze non protocollari attinenti alla presidenza della Repubblica italiana». Il presidente Cossiga, che si ispira al modello Einaudi, me ne ha chiesto una ristampa anastatica. Che uscirà presto. E allora apprenderemo che, prima di Einaudi, c'era un ampolloso ma impotente rito collegiale: la firma dei decreti in giorno fisso, il giovedì di ogni settimana. Rapida contabilità del presidente-economista: in pratica trenta settimane disponibili. Media dei decreti settimanali: ÌOO-4Q0. Impossibile qualunque controllo, qualunque revisione preventiva e specifica. Di più: un'invadenza nei poteri del governo. «Quella riunione poteva essere paragonata, ebbene non fosse tale, a una seduta del Consiglio dei ministri. Presieduta da chi non aveva avuto dalla Costituzione siffatto incarico». E allora firma immediata senza ministri. Revisione sostanziale e giuridica. E tinvii di tutte le leggi su cui sussistevano osservazioni e rilievi. Testimoniati nello Scrittoio del bresidente. Che qualcuno scambiò per [e pagine di un «notaio» della Repubblica. Altro che «notaio»! EINAUDI fu accusato di «scrivere» sui giornali anche durante la presidenza. Chi aprì il caso, il 13 agósto 1948, sulle colonne del Corrieri (il giornale di AJbcrtihi che era stato einaudiano, dopo il» lungo e appassionato noviziato nella Stampa di Roux) fu Umberto Calosso, un uomo sempre controcorrente e sempre in buona fede. Ma in senso contrario alla polemica che poi si sviluppò, anche in Parlamento. «Perché dovremo rinunciare — scriveva in sostanza Calosso — al magistero giornalistico di questo grande prosatore che fu caro anche a Gobetti? Dove sta l'incompatibilità fra presidenza della Repubblica e collaborazione nei giornali?». Al massimo — suggeriva sornione Calosso — uno pseudonimo. Einaudi coglieva la palla al balzo. Non rispondeva al quesito di principio, ma il 22 agosto mandeva al giornale un articolo mascherato da lettcrra aperta. Lo intitolava // fantoccio liberistico. E polemizzava, senza neanche troppi riguardi, con la tesi antilibetistica, adombrata dal socialista Calosso (ma in punta di penna), che il liberismo consistesse nella lotta per la vita, nella tegola àeW'homo homini lupus, nell'uttarsi, gli uomini, l'uno con l'altro per poi «fare l'interesse generale». «L'uomo comune calunnioso per la nostra confraternita»: sentenziava Einaudi. E solo alla fine si domandava — ma era un interrogativo retorico — se la «passione professionale» lo avesse spinto a varcare «i limiti del riserbo che la carica mi imbone». Era convinto, nel fondo, del contrario. IL suggerimento di Calosso — di ricorrete a uno pseudonimo in caso di bisogno — fu seguito due anni dopo. Il 22 aprile 1950 il settimanale di Pannunzio, // Mondo, che era nato con Einaudi già insediato al Quirinale e che il presidente leggeva con assiduità pari in tanti casi al consenso — c'era il filo diretto con Ernesto Rossi —i usciva con un articolo di Enrico Manfredi su «Le pecore zoppe». L'aveva scritto Einaudi e Manfredi era solo uno pseudonimo. Il presidente era stato battuto da governo e Parlamento: si era opposto ad un provvedimento sull'inserzione delle carriere dei magistrati incaricati d'ufficio senza concorso. Aveva ottenuto un secondo testo, ma ipocritamente uguale ai primo. Era risoluto a non farsi beffare, giustamente te¬ stscchperizonetilodelatesaidrerapsaqchtae ycsvdntLRdsGmudvddgtsnppUcc e o u a a e stardo. Si meravigliava — e lo scritto fece gran rumore — che i magistrrati non avessero per primi protestato contro «le richieste immorali delle pecore zoppe, le quali vogliono entrare nel loro corpo, o, entrate, fare salti mortali». Quante pecore zoppe da allora! Einaudi si avvalse anche delle leggendarie «lettere scarlatte» di Pannunzio per ribattere ai tanti magistrati interessati che, ignari dell'autorevole identità dell'autore, avevano reagito con veemenza «corporativa». «La magistratura — sono parole di Manfredi-Einaudi — sarà... un ordine autonomo solo quando nessuno dei suoi membri chiegga favori od eccezioni o vantaggi dagli altri poteri, esecutivo e legislativo, dello Stato». . ~X r ONSIEUR le pròy\ _[_ y _|_ fesseur» : corresse una volta Einaudi, conversando con Jaffe, il noto specialista di Pareto, che l'aveva chiamato «monsieur le President». Non concepì mai separazione fra politica e cultura. Continuò a scrivere su carta dei Lincei (come Segni più tardi). Riunì i suoi scritti. Ne produsse altri. Collaborò alla miscellanea per Croce e per Gioele Solari. Onorò il «piccolo mondo antico» di sua madre, in una memoria alla «deputazione di storia patria delle antiche pròvincie».. _ -H 31-octobre-'1949- si congedava, all'Università di Torino, dai suoi cinquantanni di insegnamento, rivendicati in un tutt'unico: anche il periodo di scuola tenute agli istituti tecnici di Cuneo e di Torino. E poi il libero docente, e poi il professore di ruolo (nel 1902). Un cursus honorum sentito come tale: nell'esordio e nelle conclusioni. N: ON è vero che tutto fu tranquillo per Einaudi, nella scelta dei senatori a vita (egli prediligeva gli intellettuali, o i politici intellettuali, secondo la norma p.Q , n E l o e o i i a costituzionale). Lo scrive anche Riccardo Faucci nella sua ur documentata e ricchissima iografia di Luigi Einaudi, uscita in questi giorni dall'Utet (e così vasta e minuziosa, fino alle soglie del Quirinale, da compromettere lo spazio riservato al suo grande periodo). No: Paratore mi confidò una volta le obiezioni e le resistenze che la scelta di Luigi Sturzo, il fondatore del partito popolare, suscitò proprio in De Gaspcri. La scena, la consueta: il presidente del Consiglio che si . :ca per l'incontro di rito al Quirinale. Einaudi che lo accompagna alla porta, si sofferma un momento sull'uscio, tira fuori dalla tasca due nomi, in quel caso Sturzo e Zanotti Bianco. Un cattolico e un laico. Ben bilanciati. Due antifascisti di razza. Una smorfia di disappunto nel presidente del Consiglio. Sturzo polemico con la de; sgradito al Vaticano. Battitore libero. Tutt'altro che tenero, da sempre, per De Gasperi. Si poteva nominare un sacerdote senatore a vita? Indagine riservata. Grandi giuristi interpellati. Parete dubbio inoltrato al Quirinale. Ma il laico Einaudi non avrebbe mai ceduto a un'om bra di «discriminazione». Fu questo l'unico onore che la Repubblica rese al candido sacerdote che Pio XII, il suo papa, si rifiutò di ricevere sempre. L5 INTERPRETAZIONE, , rigorosa e insieme personalissima, dei poteri presidenziali emerge chiaramente dalle pagine di Faucci Un caso: relativo all'amico Bobbio. Protesta dell'Univer sita di Torino, e della grande scuola di «Giustizia e Li' berta», contro il culturame «scelbiano». Passo riservato. Un gruppo di intellettuali che invoca nella stessa maggiorai za «uomini di meno improvvido costumi:, di piti profondo scrupolo democratico". . | Jrìis,ppstV cq'nfidcjìziale: V )t presidente non ha «poteri parti colori» nella nomina dei mini stri e tantomeno nella revoca. Una sua ingerenza sarebbe in aperta violazione con la Costi tuzione. E il tocco finale: «Sarei lieto se il prof. Bobbio, nella sua qualità di eminente giurista, volesse inviarmi un suo motivato parere in proposito». cdvDstnrnALLA fine dell'agosto 1957 lo visitai a Cogne, insieme con Enrico Mattei, che gli preparava un'intervista per il giornale di cui ero allora direttore, // Resto del Carlino. Incontro cordialissimo, invito a tornare a salutarlo a Dogliani. In una lettera del 10 settembre '57, che ritrovo autografa fra le mie carte: «Venendo a Dogliani, avvertire e arrivare verso le dieci antimeridiane per avere tempo». Cortesie di altre epoche! Era impossibile, in quell'incontro, separare i confini fra cultura e politica. Einaudi si soffermò sulla «congiura degli eguali» di Babeuf. E parlò a lungo — penso all'amico Ga lame Garrone — di Buonarroc dei buonarrotiani. In que sto statista laico c'era, come nel suo allievo Gobetti, una vena di Vecchio Testamento. Ricordo la conclusione: «Gli uomini sono nati per creare soffrendo». Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Calosso, Cogne, Dogliani, Pareto, Torino