L'imperatore e il cielo di Sergio Quinzio

L'imperatore e il cielo COME LA CINA INCONTRO' L'OCCIDENTE L'imperatore e il cielo All'orizzonte planetario del futuro vediamo volentieri, o crediamo di vedere, l'incontro dei popoli e il reciproco arricchimento fra le loro diverse culture. Siamo soliti dare per scontato che questo sia non soltanto possibile ma, in qualche modo, predestinato, secondo il nostro pervicace, e mai abbastanza deluso, storicismo. Per essere sensati e prudenti dovremmo invece chiederci anzitutto se civiltà lontane possano davvero comunicare in profonditi tra loro, o se siano condannate a sopraffarsi a vicenda, imponendo influssi a seconda degli esiti, in definitiva mortali, delle lotte che le oppongono. Lo sforzo da compiere per capire gli «altri» è grande, e per lo più votato al fallimen to: ne abbiamo l'inconscio presentimento, e forse anche per questo lo compiamo tanto raramente, preferendo applicare agli «altri» — che sono i «diversi» da noi — qualche nostro sommario preconcette che li deformi in modo da farli rientrare nei nostri schemi A questa sorte non sfuggì a suo tempo, pur essendo avido di conoscere e spinto dalle mi gliori intenzioni, K'ang-hsi, l'imperatore dell'allora recente dinastia manciù che tegnò per oltre sessantanni sulla Gna, dal 1661 al 1722. Sulle sue spalle cadde l'esperienza del l'incontro con l'Occidente, il mondo sconosciuto e inimmaginabile che, dopo gli sporadi ci contatti del passato, i gesui ti, nel fervore della Contrari forma, avevano cominciato s far penetrare in quelNestremo oriente» che per i cinesi era il «regno di mezzo», e cioè il centro del mondo. La vita di K'ang-hsi ci viene raccontata dal sinologo inglese Jonathan Spcnce, che ha cucito pazientemente brani di scritti dell'Imperatore con un'invisibile operazione di rammendo. Il suo libro, tradotto da Adelphi, è intitolato Imperatore della Cina. Autori.tratto di K'ang-hsi. hlel 1692 l'Imperatore ave va,.dichiarato completamente libera la diffusione del cristianesimo nel suo impero, mentre teneva presso di sé tutti gesuiti con i quali studiava discuteva apprendendo tecni che occidentali matematiche, astronomiche, musicali, di forgiatura dei cannoni, di costruzione di orologi e altre macchine. Ma dopo che nel 1704 l'Inquisizione aveva condanna to il culto di Confucio e degli antenati, ammesso dai gesuiti per i loto convcrtiti, K'ang-hsi si oppose decisamente e fece anche incarcerare il legato papale Tournon, che credeva di poter imporre il punto di vista romano. L'Imperatore riconosce che «alcuni dei metodi occidentali possono anche costituire un passo avanti». Ma dichiara subito che «in sé non hanno molto di nuovo», e, sorprendentemente per noi, che anche quei metodi «hanno un'origine cinese», precisando infine che, «dopotutto», i sapiens occidentali «sanno soltanto una piccolissima parte di quello che so io». «Spesso, quando costoro si lanciano in una discussione, non si pud fare a meno di sorridere. Come possono aver l'ardire di discutere i "grandi princìpi della Cina"?». K'ang-hsi considerava addine tura un'enormità 1'«insinuazione» del legato Tournon, il 2uale pretendeva che «la parot "imperatore" si usasse anche tra la sua gente». Gli Occidentali, non venerando gli antenati, mostrano di «trattare i loro morti con indifferenza», e perciò di non essere «nemmeno al livello degli animali», i cuccioli dei quali• «piangono per molti giorni la uro madre morta». Scandalizza-• to fra l'altro dal fatto che nelle riunioni cristiane «gli sòia. vi si mescolavano coi padroni i gli uomini con le donne», l'Imperatore domandava al gesuita Verbicst «come mai Dio non avesse perdurato il figlio senza bisogno di farlo morire»«Benché egli avesse cercato di darmi una risposta, io non l'avevo capita». «Sarà stato volentieri testimone di uno di quei miracoldi cui parlavano, aggiunge, ma nessuno si annunciava imminente». L'«autoritratto» dell'imperatore K'ang-hsi ci dà qualchvolta l'impressione di averlo vicino, di poterlo raggiungereConosciamo c comprendiaminfatti le sue singole azionima non l'universo mentale icui acquistano il loro senso, 1 ci restano quindi estranee. GcofodLronindvamgapnzspddtsnmdcrmOpnsts colpisce profondamente l'idea fondamentale che la Terra debba rispecchiare l'immutabiordine perfetto del Gelo. L'importanza in Gna del rigoroso comportamento cerimoniale deriva — come ci hanno insegnato in particolare i libri di Marcel Granet — dalla convinzione che tutto l'universo è armonia, sapiente contemperamento di forze contrarie, che gli uomini devono riconoscere al gioco delle quali devono adeguarsi. L'animo di K'ang-hsi ci appare in qualche modo «moderno», nell'intensa consapevolezza che i risultati «politici» sono frvtto dell'attenzione prestata a ogni particolare, dell'impegno, della sagacia, dell'intuito psicologico; mentre per l'antica tradizione cinese, specialmente taoista, la feice armonia del Paese in tutti suoi aspetti era frutto del non agire se non simbolicamente, del non decidere, in definitiva dell'influsso «magico» emanato dal vertice imperiale. Ma l'idea stessa di «armonia» è comunque, per noi Occidentali, al limite dell'impensabilità. Il nostro ideale non va quasi mai al di là della speranza di riuscire ad escogitare e applicare rimedi parziali provvisori a una storia che sappiamo tragica. K'ang-hsi non ci è comprensibile nei suoi viaggi, nelle sue cacce, nelle sue spedizioni militari, nelle sue azioni di -governo, nel suo modo di pensare, ma ci diventa tale nell'esperienza che fa dell'invecchiare, con l'immancabile perdita di energie, con la malattia, la delusione, l'incombere del senso della vanità delle cose. Dai 56 figli che vissero per qualche tempo dopo la nascita aveva avuto molte pene: soprattutto dall'erede legittimo Yin-jeng, sfrenato, crudele, forse pazzo, che aveva educato e fatto educare con ogni cura. K'ang-hsi muore con presentimento che la grande macchina del suo «regno di centro» possa incepparsi e corrompersi, dissolversi come lui sta dissolvendosi. Tutto il libro compilato da Spence converge verso il finale, amarissimo «decreto di commiato» con il quale il vecchio Imperatore si congeda dai suoi sudditi, e sul quale dice di aver meditato per dieci anni. Dopo la sua morte sarà diffuso in una forma ridotta e burocratizzata, che lo svuota di senso. Vi si leggono parole che misurano l'infinita miseria da quando? da Marco Aurelio? del nostro «pubblico», del nostro «politico». «Adesso che sono malato sono querulo e smemorato, e ho il terrore di confondere il giusto con l'ingiusto... Anche se vuoi far qualcosa, non hai sufficiente vitalità, e ormai è troppo tardi per ammettere i tuoi errori. Non puoi più essere destato, e gemendo nel tuo letto morrai con gli occhi aperti... Non proverai angoscia prima di morire?». In Occidente — e il confronto torna tutto a vantaggio dell'Oriente — correva parai lelo a quello di K'ang-hsi il regno di Luigi XIV, il Re Sole. Dopo aver letto la stona dell'imperatore K'ang-hsi mi confermo tristemente nella convinzione che non possiamo riconoscerci, né fra rx>poli né fr,a^it)goli, se non nel destino idir.fa^limcnto e di consumazione .-che ci accomuna tutti, Lì. forse, possiamo tutti ritrovarci fratelli, fratelli di morte. Sergio Quinzio

Persone citate: Jonathan Spcnce, Luigi Xiv, Marco Aurelio, Re Sole, Spence, Tournon

Luoghi citati: Adelphi, Cina