Quel film è falso di Gianni Rondolino

Quel film è falso BRESSON, L'OCCHIO E IL CINEMA Quel film è falso Di fronte allo strapotere estetico e spettacolare del nuovo cinema americano, quello di Spielberg e di Lucas, degli «effetti speciali» e del coinvolgimento totale dello spettatore nel buio della sala, davanti a uno schermo di dimensioni spropositate, ecco ergersi, solitario c dimesso, un piccolo aureo libretto, che questo strapotere estetico e spettacolare non già critica o combatte, ma semplicemente nega, ignora, come non esistesse. Una negazione che è tutta implicita a una visione del cinema come «scrittura», che risale a più di trent'anni fa, quando non esisteva ancora il cinema degli effetti speciali, ma dominava tuttavia il cinema di Hollywood, quello dei divi e del grande spettacolo, delle avventure appassionanti c delle scenografie monumentali. L'aureo libretto, uscito nel 1975 in Francia per i tipi di Gallimard e ora tradotto da Ginevra Bompiani in italiano per i tipi di Marsilio, è di Robert Brcsson, il regista francese quasi ottantenne che un paio di anni fa ci ha dato ancora un capolavoro con L'orgent. 11 suo titolo è talmente semplice, elementare, da parere quasi banale: Note sul cinematografo. Ma dietro questa banalità si nasconde una piccola miniera di pensieri, di aforismi, di considerazioni, di suggerimenti e consigli, da farne una sorra di vademecum tanto per il giovane che vorrebbe fare il regista, quanto per lo spettatore intelligente. 11 quale spettatore, seguendo il filo di questo discorso esile ed essenziale che si dipana per un centinaio di paginette scritte fra il 1950 e il 1958 (con un'appendice di brevi note del periodo I9601974), si trova sin dall'inizio come spaesato, dubitando della sua stessa natura di «spettatore». Bressorrè perentorio, quasi brutale nelle sue affermazioni. «Ud?J$ap$hn può eB_WjW*f\ spettacolo, perché uno 'spettacolo esige la presenza in carne e ossa». Di conseguenza uno spettatore cinematografico, a differenza di quello teatrale, non può essere uno spettatóre. Potrebbe essere un «lettore», dato che Bresson si premura di dire che «il cinematografo ì una scrittura con immagini in movimento e suoni»; ma anche questo è tutto da dimostrare, anzi è discutibile: è addirittura falso. Lo spettatore cinematografico non assiste a uno spettacolo, non legge un testo. Semmai osserva, guarda. Deve guardare un film come si guarda un quadro, ma al tempo stesso non deve cadere nell'errore di considerare il film come un quadro in movimento, o come una galleria di quadri, anche perché, come scrive Bresson, «un insieme di buone immagini può essere detestabile». E allora? La risposta è al tempo stesso semplice e affascinante, rigorosa e sconvolgente: «il cinematografo compie un viaggio di esplorazione su un pianeta sconosciuto». E poiché Bresson si premura di distinguere fra «cinema» e «cinematografo», tra film «che usano i mezzi del teatro (attori, regìa, ecc.) e si servono della macchina da presa per riprodurrò) e film «che usano , mezzi del cinematografo e si servono della macchina da presa per creare», è chiaro che lo spettatore-osservatore è a questi ultimi che deve prestare attenzione, guardandoli come creature vive che possono rispondere al suo sguardo, facendo ricorso (come deve fare ricorso il regista) a quella che Bresson chiama, con un termine che rimanda a Bufiucl, «la forza eiaculatrice dell'occhio». In questa prospettiva, parrebbe che la maggior parte del cinema contemporaneo, non solo americano, sia qualcosa di diverso dal cinematografo, qualcosa di intrinsecamente falso, di riproduttivo. E lo è, se si accetta la distinzione bressoniana fra «cinema» «cinematografo». Ma il discorso del regista francese va al di là di questa antinomia, non si preoccupa di indagare le' cause, le differenze, non vuole essere sistematico, rigorosamente teorico. E' piuttosto un invito a entrare in una nuova dimensione estetica, a sprigionare le proprie facoltà conoscitive, ad avere il coraggio dil rischio, a besgqsgcccucrzmrrpumccgmSranupfplvnidsrtmnencd buttarsi nell'avventura ed esplorare il «pianeta sconosciuto». Anche il regista, il vero regista («non si tratta di dirigere qualcuno, ma di dirigere se stessi»), deve avere questo coraggio. Ed ecco allora la semplice, inequivocabile, definizione che Bresson dà della ripresa cinematografica: «Mettersi in una condizione d'ignoranza e di curiosità estreme, e tuttavia vedere le cose prima». Una definizione che sarebbe piaciuta moltissimo a Rossellini. Insomma, il percorso del regista e quello dello spettatore-osservatore sono percorsi paralleli che hanno tuttavia un punto in comune, un elemento che li lega insieme e in certo modo ne determina il cammino, lo schermo: il luogo fisico in cui si compie il miracolo della proiezione. Scrive Bresson rivolgendosi il regista, ma il suo discorso vale anche per lo spettatore: «Come nascondersi che tutto finisce su un rettangolo di tela bianca appeso a un muro? (Vedi il tuo film come una superfìcie da ricoprire)». Ma se i percorsi sono paralleli, e il cammino di ciascuno verso lo schermo, la mèta fi naie, o dallo schermo, la tappa iniziale, possiede il carattere della scoperta continua, dello svelamento progressivo d'una realti sconosciuta, ciò è dovu to alla natura stessa del cinematografo, alla sua capacità non già di riprodurre la realtà esistente, ma di crearne una nuova. Scrive Bresson: «Quel che nessun occhio umano è capace di afferrare, nessuna matita, pennello, o penna di fissare, la tua macchina da presa lo coglie senza sapere che cos'i e lo fissa con l'indifferenza scrupolosa della macchina». Ed è proprio questa «indifferenza» meccanica, questa «oggettività» tecnica, a costituire paradossalmente la base della soggettività di ogni film che sia tale, della creatività d'ogni regista che sia un autore, un artista. «Il tuo film, consiglia Bresson, deve assomigliare a quel che vedi chiudendo gli occhi». Ed è infatti il passaggio dall'immagine reale all'immagine mentale, e il ritorno da quest'ultima alla prima,- a segnare il percorso della visione, a guidare'lo spettatore lungo il cammino, non sempre facile, dello sguardo. Questo richiamo allo sguardo — che è un po' il filo conduttore di questi aforismi sul cinematografo — è anche un richiamo, oggi più che mài necessario, alla realtà. Non già, come si potrebbe pensare, alla «realtà dell'immagine», ma alla «immagine della realtà». Di fronte alla finzione esibita di tanto cinema contemporaneo, al piacere della fantasmagoria dell'immagine schermica, il richiamo di Bresson all'autenticità dello sguardo è perentorio: «In questa Un gua delle immagini, bisogna perdere completamente la nozione di immagine». Gò che conta è il reale, meglio il vero. «Essere scrupolosi, dice Bresson. Respingere del reale tutte ciò che non diventa vero. (L'orribile realtà del falso)». Gianni Rondolino

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