Sulla montagna dì Bernhard l'anima gela

Sulla montagna dì Bernhard l'anima gela Sulla montagna dì Bernhard l'anima gela PRIMA prova di rilievo dell'austriaco Thomas Bernhard, «Gelo», presentato al pubblico italiano nella sensibile traduzione di Magda Olivetti, si conferma quale testo di eccezionale tenuta, apertura di temi svolti in successive opere, di narrativa e teatro, che in questi anni abbiamo imparato ad amare. Con crudezza, il libro disegna le linee di un mondo verso il quale l'autore si mostra ambivalente, dipendente e discorde. E' l'orizzonte chiuso della montagna, della natura aspra che isola i contadini dalla città e dalla storia. Sulla scena domina la fatalità, e gli istinti, l'oralità, il sesso, la violenza si scatenano come eventi cupi. Se «nel villaggio c'è gente che non è mai uscita dalla valle, hanno visto 11 treno solo da fuori» le montagne restano «testimoni di grandissimi dolori». Le cose che accadono nella quotidianità di Weng, «paese malinconico», ruotano tutte attorno alla locanda dove giunge un giovane assistente medico; il suo compito è quello di osservare il fratello del primario, Il pittore Strauch che da tempo ha lasciato la città e i quadri per un'ostinata solitudine. Lo sguardo si apre dunque nel luogo d'approdo di una schnitzleriana «fuga nelle tenebre». ** La «paranoia» del pittore è il filo delle osservazioni che l'assistente appunta e comunica in lettere. Egli riferisce in modo oggettivo «su come cammina, sul suo modo di gesticolare, di arrabbiarsi, di difendersi dagli uomini» eppure è costretto a «fare i conti con realtà e possibilità extracorporee» ed è dall'inizio non neutrale, viene preso e coinvolto in- un microcosmo di rappòrti, di sensazioni, di pensieri dove i confini della follia sono di continuo attraversati. Accanto al pittore e all'assistente compaiono i personaggi della locanda: l'ostessa responsabile di aver con delazione spedito il marito in prigione, lo scuoiatore che è anche becchino, il gendarme, l'ingegnere che sovrintende ai lavori di costruzione della centrale a fondo valle. E vi sono altre presenze nel paese, il distillatore di grappa, il pasticciere, il par¬ roco, le suore dell'ospizio che contribuiscono ad irretire l'assistente in una sottile complicità, in un gioco di identificazioni. ' Oltre a comprendere la follia ragionante del pittore, nutrita dai pensieri di Pascal, l'assistente si inoltra in un uni' verso profondamente diviso rispetto al battito consueto della vita. Il luogo sembra puro ed è in realtà contaminato dalle ferite della guerra, dalle «sue tracce d'orrore», l'atmosfera è morbosa, gli uomini paiono in buona salute e sono corrosi dalla tbc, il candore del paesaggio è stretto in una morsa. * * Ammonisce il pittore: -Nella vita succede come nel bosco dove si continuano a trovare segnali e indicazioni fino a quando, tutta un tratto, non se ne vedono più-. Il gelo è metafora di questo arresto, piega ogni impulso a un destino cieco, annulla desideri e pensieri. L'osservatore riesce appena a sottrarsi a questo lento inghiottimento, ritorna alla città e apprende da un giornale che il pittore è scomparso durante una delle sue passeggiate nella tempesta di neve. La poesia dell'annullamento è il grande leitmotiv di Bernhard e lo congiunge a una tradizione letteraria vissuta, come provano puntuali reminiscenze romantiche. Le pagine si gonfiano di immagini, di grida e di silenzi, pulsano di una fisicità quasi non sopportabile. La traduzione non sempre può rendere l'allusione delle parole composte, il gioco del discorso indiretto, elementi di stile che animano un'ironia tagliente come i ghiaccioli sui vetri delle finestre e sugli abeti del bosco. Ed è l'autore a motivare l'ironia: -Il ridicolo è più potente di ogni altra cosa... Nel ridicolo c'è la disperazione-. Rimane la strana attrazione di uno spazio compresso e insieme rarefatto. I latrati dei cani corrispondono ai dolori nel corpo e nel «silenzio demoniaco», si avverte «il suono della neve che cade». Thomas Bernhard, «Gelo», Einaudi, 272 pagine, 28.000 lire. Giuliana Morandini del Leopardi verso la concezione della, poesia come il più'efficace strumento. Ubero e pienamente disponibile, per illustrare e manifestare la nuova conoscenza del mondo che egli ha fondato. Piace nel libro di Ricciardi la viva partecipazione del critico a quanto via via scopre e dice del suo autore. La crìtica non ha da essere mai, se è possibile, autobiografia, ma è autentica e significativa se nasce da un'assoluta necessità interiore: come, appunto, accade in questo libro, tanto da farlo particolarmente risaltare nella foltissima bibliografia leopardiana di questi anni. Giorgio B. Squarotti Mario Picchi, «Storie di casa Leopardi», Camunia, 366 pagine , 30.000 lire. Mario Ricciardi, «Giacomo Leopardi: la logica dei "Canti"», Franco Angeli, 138 pagine, 14.000 lire.