A Manhattan per dimenticare di Gianni Riotta

A Manhattan per dimenticare GIOVANE VOGLIA D'AMERICA; NUOVI VOLTI DI UN MITO A Manhattan per dimenticare Non sono nati altri Che Guevara; la Cina è tornata vicina, ma senza Mao: il sogno d'oltreoceano non ha più rivali - Negli anni di Carosone, Buscagliene e Sordi era vissuto con ironia - Oggi molti teenager vedono gli Stati Uniti solo come il Paese dei balocchi - Non più un laboratorio di idee? ROMA — Arrivato a Bologna per esporre ai sociologi italiani le sue teorie sul moderno, il professor Marshall Berman, della City University di New York, s'è trovato nei guai. Voleva comprare qualcosa di «veramente Italiano» per la moglie, la scrittrice Meredith Tax, e la loro bambina, ma, si lamenta, «ho trovato solo magliette di Columbia University». Berman ricorda che nella sua prima spedizione europea, alla fine degli Anni Sessanta, «tutte le cianfrusaglie stile Usa, che noi chiamiamo americana, non erano ancora cosi esportate: oggi è un dialetto internazionale unico, New York, Parigi, Roma». Al modello America riesce una produzione di miti e immagini a ritmo prodigioso, che unifica mondi diversi: gli studenti di Bologna e della California, come pure i soldati governativi e i ribelli del Centramerica, che vanno in guerra sulle opposte barricate con in tasca l'identico nastro di Michael Jackson. Gli altri miti impallidiscono. L'Unione Sovietica è incapace da generazioni di produrre personaggi in grado di emozionare i giovani, il Che Guevara, che valeva come carica cento Richard Gere, è lontano, la Cina è di nuovo vicina, ma il carisma di Deng non stimola sogni d'avventura. Il grande successo e la durata del mito americano sta invece nella magia di ingoiare tutto e renderlo credibile. Lasciata Roma per New York, il critico Alessandro Portelli propone questa interpretazione del mito americano in un seminario alla Columbia. Come per Berman è il Bronx la metafora del moderno, così per Portelli «oggi l'America ha preso il posto del romanzo e dell'epos come grande costruzione dell'immaginario moderno. Per il mio seminario lo (ho soltanto sostituito in un sàggio del critico sovietico OBachtin la parola '.'America" a quella "romanzo" e tutto1 funziona alla perfezione. L'America oggi è, come il romanzo nel passato, il mito in cui 1 ragazzi possono trovare ogni cosa, o almeno la sua riproduzione, i castelli europei a Disneyland». Il fascino americano sui ragazzi d'Italia si spiegherebbe dunque con la potenza onnivora, Davy Crockett accanto a Lee Iacocca. La direttrice di Linus Fulvia Serra ha cercato di interpretare «l'immagine globale dell'America» dedicando un fascicolo del suo mensile al tema «E se l'America non ci fosse più?-. «La reaziona del lettori è stata fantastica», dice nello studio dove inàaffaratissima prepara la sua ultima creatura, un giornale per bambini. «Ho scoperto una generazione che potrei chiamare post dottor Spock, i figli dei nostri lettori del 1965, gente abituata a crescere avendo in mente ricette per tutto, che oggi queste ricette le cerca negli Stati Uniti, anche se, per carità. Imitare uno stile non dovrebbe dire copiare dei valori». La chiave per entrare nella scatola magica del mito americano potrebbe allora essere la sua totalità, una specie di porta girevole della fantasia che non lascia fuori niente e nessuno. Sono i ragazzi che hanno avuto il privilegio di visitare gli Stati Uniti a confermare questa impressione. Per Andrea Nelli, di otto anni, «l'America è un paese selvaggio, dove la natura è più grande e trovi di tutto, le città sono anche più grandi e ci sono parchi gioco per i bambini, perché gli adulti là amano i bambini». Per Barbara Placido, diciottenne studentessa di antropologia, la scoperta dell'America è arrivata dopo tanto titubare: «Francamente non mi attirava, poi la prima notte mi sono svegliata davanti a una finestra sull'Empire State Building e ho pensato: sono al centro del mondo, provando un incredibile senso di forza, di sicurezza». La sensazione di Barbara di «poter realizzare tutto quello che hai sempre desiderato» è condivisa da tanti ragazzi che il mito l'hanno visto da vicino. Restano per ora- una minoranza, perché, secondo uno studio della Chase Econome trics, quest'anno solo 235 mila italiani andranno negli Stati Uniti per turismo e, malgrado il gran parlare di borse di stu- dio e stages Usa, la signora Barbarossa della Commissione scambi culturali ItaliaUsa calcola che ogni anno tra studenti e ricercatori solo un centinaio di persone riesca a varcare per studio l'oceano. Per la gran parte dei teen agers italiani il mito onnivoro degli States resta inavvicinabile. L'estate scorsa quando Gus Binelli e Walter Magnifico, giovani giocatori di pallacanestro, vengono invitati a ^provare» negli Usa per giocare nel leggendario campionato americano, la loro emozione è vivissima: i giornali si colmano di cronache commòsse per i due *az- ^rrU'.iaJty (-orte «JeOlóimtt del basket. ^stìiiesta mi fa paùr'àTi #Q-' vani vivono il mito americano senza più ironia», dice Vincenzo Mollica, il giornalista del Tgl che ha dato a Remo Arbore l'idea per «Quelli della notte». Dopo avere' raccontato il costume filoamericano di casa nostra dei tempi di Carosone, Buscagliene e Sordi in una serie di divertenti volumi, Mollica oggi nota una novità: «Per tutto il dopoguerra gli Stati Uniti sono stati il teatrino in cui la gioventù italiana proiettava la propria ironia. Renato Carosone cantava i versi di Nicola Salerno "tu vuù fa' l'americano! siente a me, chi t"o fa fa? Tu vuoi vivere alla moda, ma si bive whisky and soda, po' te siente 'e disturba". Adesso vedo invece una strana omologazione, un livellamento enorme nell'aria: il gioco è finito». C'è anche di peggio: c'è il modello che è diventato doppiaggio, caricatura, il cantante Alberto Fortis che, come nota lo scrittore Andrea De Carlo, «sul palcoscenico fa penosamente finta di essere americano». Ci sono i giovani romanzieri che scrivono in <traduttorese* copiando BukotDòJcy o Leavitt. L'accusa è respinta da Marcèllo Murzilli, inventore della linea di abbigliamento -El enarro*, che su questa voglia di far finta di essere americani ha costruito un fatturato di circa 60 miliardi l'anno: «Senza sogno e senza avventura uno si spara, e a noi hanno inculcato questo sogno, l'America, Ombre Rosse, John Wayne. E c'è chi per fare avventura si accontenta di un paio di jeans». Sono rassicurazioni condivise da tanti: il mito americano, dicono, non intacca l'i¬ dentità dei ragazzi italiani. C'è però chi non è così tranquillo e vede invece un pericolo nell'abbinamento tra una certa indifferenza diffusa in parte degli studenti italiani e questo massiccio consumo di America. Un po' paradossalmente l'accusa viene dal docente universitario di Bologna Antonio Faeti, una vita passata ad amare e studiare il mito americano, fino al suo ultimo libro, In trappola col topo, un saggio dedicato a Topolino che Einaudi manderà a giorni in librerìa. Faeti accusa: «I ragazzi di oggi vivono l'America dalla provincia di un impero. In loro non c'è nessun amore na, da noi' adorata. Negli bc- phf nón,'hàp,no più nessuna discriminante, guardano battere quel grande cuore lontano con la scontentezza e il rammarico di chi sa di non vivere dove davvero accadono le cose». Faeti trova «straziante il postravoltismo» e si amareggia perché questa grande abbuffata di America manca, a suo giudizio, di amore e interesse reale e «come una gramigna onirica uccide tutti gli altri sogni». Allo scrittore americano Gore Vidal che accusava i suoi connazionali di non visitare più l'Italia non per paura delle bombe, ma per ignoranza, Faeti replica che «i nostri ragazzi adorano andare in America proprio perché hanno dimenticato Roosevelt e 11 trovano una specie di grande paese dei balocchi». Nel caleidoscopio fragoroso che l'America esporta in Italia appare dalle parole di Faeti una poco rassicurante immagine, un isolazionismo americano, culturale ancor prima che politico, accompagnato a una curiosità scervellata della gioventù europea. «Il rischio esiste», conclude il giornalista americano Dan ttts P.edtmont. oln! iiioc a Roma con la' móglie e due figìt; ' se <Tall&' '-tecnologia"' lo avvicina. Quando Lucas, Coppola e Michael Jackson hanno prodotto insieme il video musicale per Disneyland, gli amici dei miei figli sono arrivati poche ore dopo la notizia chiedendo ansiosi, come facciamo a vederlo, subito? Io penso che gli Stati Uniti si chiuderanno sempre più su se stessi, e magari finiremo per vederli solo in tv, splendido paese dei balocchi lontano, ma chissà come è fatto davvero». Gianni Riotta Kncino (California). La star del rock Michael Jackson con Biancaneve e uno dei sette nani come l'aveva disegnato Wall Disney