Gran crepuscolo dei futuristi di Paolo Mieli

Gran crepuscolo dei futuristi VENEZIA: LE TRISTI PARABOLE DI UN MOVIMENTO LIBERTARIO Gran crepuscolo dei futuristi Nella patria d'orìgine finirono con l'essere inquinati dal fascismo - Nell'Unione Sovietica, Majakovskij e gli amici furono piegati dal realismo socialista - Forse è ingiusto e approssimativo identificarli con le dittature che in parte segnarono la loro fine - Su «Futurismo e avanguardie» storici, critici, scrittori da oggi a convegno DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — Sono passati ventisette anni da quel primo scontro con le autorità sovietiche che ebbe come oggetto proprio un giudizio su Vladimir Majakovskij. Vittorio Strada, trentenne, comunista, allievo di Antonio Banfi, già allora studioso di letteratura russa e grande cmico degli scrittori del disgelo kruscioviano, si trovava a Mosca per scrivere la tesi del dottorato di ricerca sul futurismo russo. Una tesi che valorizzava al massimo questa esperienza culturale e, in particolare, il ruolo che in essa aveva avuto Majakovskij. Apriti cielo. I cultori ufficiali del poeta, che erano legioni dopo la consacrazione che di lui aveva fatto Stalin nel 1935, furono unanimi nel respingere le argomentazioni di Strada: quella del futurismo era stata nella vita di Majakovskij un'insignificante parentesi e contro l'autore di quella tesina fu lanciato il più classico degli anatemi comunisti: «E' un revisionista!». Preoccupatissimo Strada fece recapitare il suo scritto a Palmiro Togliatti e Mario Alleata che, dopo averlo letto, lo tranquillizzarono: «No, non sei su posizioni revisioniste». Dopo quell'episodio del 1959, Strada continuò ancora a studiare la letteratura russa e, per circa un ventennio, a militare nel pei. Ma i suoi rapporti con gli accademici e il potere sovietico rimasero pessimi. Questa mattina Strada aprirà, insieme con Maurizio Calvesi e Jean-Claude Marcadé, il congresso internazionale .tu .11 Futurismo e le avanguardie- con una relazione dal titolo «Le fini del futurismo in Russia* in cui riprenderà i temi di quella lontana tesina sui quali peraltro è già tornato nel bellissimolibroLe veglie della ragione'eHitiàn saggiò piìti-' blicato qualche mese fasulla rivinta Le Uera In lem a zionale. Spiegherà perché fu proprio dall'incontro con la Rivoluzione d'Ottobre, osteggiato da Lenin ma favorito dal commissario del popolo per la cultura Anatolij Lunaciarskij, che i futuristi, mettendo in soffitta il loro bagaglio di nichilismo e ribellismo per indossare i nuovi panni nazional-ottimistl, piantarono il seme della loro estinzione. Insomma, il contrario di ciò che ancor oggi sostengono gli accademici russi: l'incontro col comunismo fu per i futuristi russi l'inizio della fine. Singolare questo approccio a un movimento culturale attraverso le sue «fini- (anche se Strada preciserà subito che «nella cultura tutto nasce e nulla si distrugge, tutto ciò che sembra morto è, in realtà, soltanto in letargo e può svegliarsi e trasfor¬ marsi al contatto con altre entità culturali»;. Singolare ma utilissimo. Soprattutto se è fatto esplicitamente e non nel modo surrettizio che ancor oggi viene adottato per il futurismo italiano. In Italia il fatto che i futuristi siano stati interventisti, che parteciparono alla riunione costitutiva del movimento fascista nel '19 a Milano in Piazza San Sepolcro, che nel novembre del '22 Marinetti appoggiò sulle colonne del Resto del Carlino il primo governo Mussolini e nel '24 scrisse che «Vittorio Veneto e l'avvento del Fascismo al potere costituiscono la realizzazione del programma minimo futurista», che nel '29 fu nominato accademico d'Italia, nel '35 approvò l'avventura imperiale fascista e, dopo aver combattuto in Russia, alla fine dei suoi giorni aderì alla Repubblica sociale, tutto ciò fa ancora vivere l'equazione secca futurismo - fascismo. Poco importa poi se già nel '20 ci fu una prima clamorosa rottura tra fascisti e futuristi che rimproveravano a Mussolini l'involuzione monarchica e clericale; se quegli stessi scritti marinettianl di cui sopra, letti in controluce, lasciano trasparire una sua adesione assai critica al fascismo; se per unanime riconoscimento — c'è in proposito una poco conosciuta lettera di ringraziamento a Marinetti firmata da Benedetto Croce — il fondatore del futurismo usò della sua posizione dì accademico nonché amico personale di Mussolini per aiutare non pochi antifascisti; se fece parte dell'esiguo drappello che nel '38 si pronunciò pubblicamente (con una presa di posizione su Artecrazia che in seguito a ciò fu subito fatta sequestrare) contro le leggi razziali; se la sua battaglia per. un ritorno al fascismo rivoluzionario delle origini.aveva molti punti in comune con quella della leva di intellettuali che alla fine degli Anni Trenta, proprio per quella via, trasmigrò allan- tifascismo. tifascismo. Lo storico Renzo De Felice da tempo sostiene che. anche •in presenza dì innegabili tratti comuni, è infondata «la sbrigativa riduzione del futurismo alla categoria del fascismo». E cosi anche Luciano De Maria, Emilio Gentile e Niccolò Zapponi. «Occorre smitizzare definitivamente i rapporti tra futurismo e fascismo nella concretezza dei dati di fatto, opponendosi cosi alla semplicistica (eppure tuttora assai diffusa) tendenza a una liquidazione 'Tnorale"del futurismo come fascismo», ha scritto nel recentissimo libro Storia e critirp del futurismo lo storico dell'arte Enrico Crispolti. Ma le resistenze sono ancora forti. E proprio oggi pomeriggio nel convegno di Venezia un ex avanguardista del calibro di Edoardo Sanguinea presumibilmente echeggerà ciò che scrisse sull'Espresso nel maggio I scorso: «Sopra i tratti squisi I tamente fascisti del futuri¬ smo marinettiano, in verità c'è poco da dibattere e da discutere. Anzi, non c'è niente. Per la tranquillità di chiunque desideri formarsi la sua buona opinione al riguardo, e pronunciarsi una sua sentenza, non si richiede né un ricorso a faticose indagini indiziarie, né un soccorso di problematiche testimonianze integrative.' A costituirsi un consistentissimo dossier a carico, ci ha pensato in prima persona, con una diligenza degnissima di una assai miglior causa, Filippo Tommaso Marinetti, e ci ha lavorato senza risparmio». Non c'è neppure un'attenuante. Ma se queste sono le conseguenze del giudicare un movimento dai suoi esiti, o meglio dalla fine che hanno fatto i suoi fondatori e principali esponenti, perché prestare attenzione a ciò che dirà oggi Vittorio Strada? E' presto detto: proprio perché esplicitato fin dal titolo della relazione, quello di Strada è molto diverso dal metodo persecutorio usato contro Marinetti e i suoi seguaci italiani. Strada conosce assai bene il futurismo russo e la figura di Majakovskij; non gli costerebbe gran fatica presentarcelo come correo dello stalinismo, almeno ai suoi albori, non solo attraverso la già ricordata beatificazione postuma che di lui fu fatta nel '35, ma anche attraverso un'accurata descrizione dei «cedimenti- politici ed artistici del poeta che negli anni precedenti al suicidio (avvenuto il 14 aprile del 1930) aderì alla Rapp, l'Associazione russa degli scrittori proletari. Potrebbe contrapporre questi suoi cedimenti all'esperienza di Boris Pasternak al quale va riconosciuto di aver individuato più o meno in quegli stessi anni «la rivoluzione come nuova oppressione, sono parole di Strada, più sistematica di quella negata, come atmosfera di mediocrità e di farisaismo». O potrebbe contrapporre la fine dell'Oberiu, gli assurdisti di Leningrado Daniil Charms, Aleksandr Vvedenskij, Nikolaj Zabolotskij, che dopo una breve attività tra il 1926 e il 1927 si dovettero rassegnare a fare i traduttori o a riversare i loro nonsense in poesie per bambini, prima di essere definitivamente risucchiati al gulag. E' un'operazione che già qualcuno fa. Non in Occidente ma proprio in Unione Sovietica tra gli intellettuali della dissidenza nauseati dal culto staliniano di Majakovskij. Uno di loro, Yury Karabeievskij, ha fatto arrivare in Germania, dov'è stato pubblicato di recente in lingua russa da una Casa editrice di emigrati democratici di sinistra, il libro La resur¬ rezione di Majakovskij: un testo molto denso, assolutamente non rozzo nelle argomentazioni, in cui si accusa il poeta di essere stato un adoratore della violenza, un labile che ha riversato nella rivoluzione le sue nevrosi facendosi complice della perdita della democrazia e di un grandioso delitto. Ma, proprio perché non è un espediente per bollare in un modo o nell'altro Majakovskij e i suoi seguaci, l'uso delle «fini- porta il ragionamento di Strada su sponde molto diverse da quelle di Karabcievskij. In sostanza, secondo Strada, già l'esperienza del Lei, la rivista dei futuristi postrivoluzionari, peccava di ingenuità nella pretesa di far della propria un '«arte di Stato». E non perché, come diceva Lunaciarskij, la Russia sovietica non avrebbe avuto arte di Stato. Anzi per l'opposto: l'Urss aveva bisogno di un'arte di Stato come sorgente di legittimazione, ma mai avrebbe potuto essere quella dei futuristi che, per caratteri intrinseci e nonostante i più spericolati compromessi, non poteva esser guidabile dall'alto. Ciò die condannò i futuristi russi non furono tanto i gusti passatisti di Lenin prima e di Stalin poi, ma la loro fragilità al cospetto degli «artisti proletari- della Rapp. Ed ecco che, come aveva già intuito in quella lontana tesina del 1959, Strada riconosce che l'incontro con la Rivoluzione e il tentativo di diventarne l'anima, ancorché ricco sotto il profilo culturale, per i futuristi russi non fu l'esaltazione suprema ma l'inizio di un lento suicidio. E il monumento postumo eretto dai sovietici a Majakovskij, quasi sia stato un padre del «realismo socialista», più che un dovuto riconoscimento a un grande poeta, suona ancor oggi come uno sberleffo. Paolo Mieli . i r x Vladimir Majakovskij Mussolini in una caricatura di Majakovskij, che fu anche disegnatore satirico spietato