Giovane voglia d'America di Gianni Riotta

Giovane voglia d'America NUOVI VOLTI D'UN MITO ITALIANO CHE NON TRAMONTA Giovane voglia d'America Si forma al cinema, alla radio, sui giornali; si manifesta con i jeans, la moto, la musica, il fast-food, il gergo: «Go to Biella» - Perché una passione del dopoguerra contagia anche l'ultima generazione? - Parlano ragazzi, scrittori, sociologi - Gli Stati Uniti sono «aria aperta», «eterna frontiera», ma anche «grande efficienza» ROMA — Da poche settimane Voice of America, l'emittente radio del governo Usa, trasmette anche a Roma e in Liguria. Il debutto della stazione, i cui programmi vengono lanciati da anni in Paesi antiamericani come l'Urss o Cuba, è spiegato da Roger Wilkinson, corrispondente dall'Italia, come «il tentativo di far vivere anche nell'ultima generazione di ragazzi italiani 1 valori americani e diffondere la nostra cultura». Chissà se c'era davvero bisogno di questa radio ventiquattr'ore su ventiquattro, cinquanta minuti di musica rock e dieci di notizie, per rafforzare il mito America tra i ragazzi d'Italia. Molti segnali dicono il contrario. Anche dividendo la grande tribù dei giovani in sottogruppi sociali, l'amore per gli Stati Uniti sembra inattaccabile. I giornalini per adolescenti Dolly, Hallo! e Debby pubblicano fotoromanzi i cui eroi mangiano hot dog e hamburgers, sfoggiando nomi come Rombo o Billy. La pubblicità dei blue jeans Wrangler, tutta scritta in americano, sembra la copia del catalogo di vendita per corrispondenza «L. L. Bean», popolarissimo tra gli studenti dei campus. La Sisley propone il suo abbigliamento tra le foto di boschi, canoe e pepite nordamericane. La Benetton punta sugli «United Colors of Benetton», un messaggio che molti teen agers italiani credono made in Usa, mentre i loro coetanei di New York l'apprezzano per lo stile italiano. Se alla televisione impazzano gli eleganti video musicali del gruppo «Frankie Goes to Hollywood», la Pioneer pubblicizza i suoi impianti stereo con la stanza di un adolescente ingombra di jeans, manifesti, elmetti da football americano, lattine di Coca, persino una bandiera a stelle e strisce e su tutta pagina l'ineffabile titolone «Gino goes to Biella». I Gint d'Italia, i ragazzini e le ragazzine che dicono «go to Biella» invece che semplicemente andare a Biella, sembrano apparire ovunque. La voglia d'America sì forma al cinema, alla radio, sui giornali, con la moto: diciassette anni dopo il film Easy Rider la rivista Motociclismo concede la copertina alle moto custom, col sellone e le forcelle stile californiano Harley Davidson, prodotte però dalla Guzzi e dalla Ducati. Le componenti di questa nuova versione del mito più duraturo del dopoguerra sono spesso tra loro in aperta contraddizione. Alla rinfusa c'è il mito dell'aria aperta, «dell'America eterna frontiera, Paese di sogno, dove immaginare è ancora possibile», dice il sociologo Roberto Moscati, «insieme con quello dell'efficienza, un mito di professionalità, il paese delle occasioni contrapposto a un Italia luogo di lottizzazioni, dove un posto di lavoro dura per tutta la vita. Un gruppo di ragazzi romani ha attaccato sulla propria automobile un adesivo con la scritta In americano, questa macchina s'è rifugiata nel Maine, ecco mi pare che gli Stati Uniti siano ancora e soprattutto un grande sogno collettivo, un rifugio». Russell Baker, lo scrittore satirico del New York Times ama ironizzare sugli Stati Uniti, «l'unico Paese che ha la faccia tosta di definirsi attraverso un sogno, the American dream»; ora il contagio sembra estendersi oltre oceano. Alla ricercatrice Amalia Signorello che li intervista per il suo saggio Chi può e chi aspetta la maggioranza dei giovani dell'entroterra salernitano risponde che il presidente Ronald Reagan sarebbe una buona figura di leader per l'Italia. Francesca Forcella, ventun anni, a diciotto è andata a New York per studiare tecniche televisive e oggi lavora per Canale 5: «Non c'è nessuno dei miei coetanei, dice, che non desideri fare un'esperienza americana, per un mese o per un anno». Moscati, laureato a Harvard e adesso docente di sociologia dell'educazione a Catania, conferma che «tra i giovani sta accadendo qualcosa di strano: anche se si limitano ad andare negli Stati Uniti in vacanza, sentono una fortissima emozione, quasi da emigranti. Per i miei studenti è come se gli Stati Uniti fossero l'unico Paese al tempo stesso civile ed esotico». Emozione Nei locali di fast food la passione per l'America di chi non ci andrà tanto presto è altrettanto calorosa. Domenico, quindici anni: «Un posto di energia, capisci, ti puoi muovere»; Paola, diciassette anni: «New York è grande e la famiglia, la scuo¬ la, non entrano nella tua libertà»; Willy, diciott'anni: «Lo spaziò, c'è spazio, hai spazio di fare le cose che vuoi». Chicco Testa, presidente della Lega Ambiente e ospite frequente del padre dell'ecologismo Barry Commoner nella sua grande casa di Brooklyn, osserva: «Io credo che tra i ragazzi dei movimenti verdi la voglia di Stati Uniti raggiunga la sua forma migliore. A livello di immagine e di consumo ti appropri di tutto quel che vuoi, le scarpe o le camicie comode. In politica studi le novità di un Paese sempre a cavallo tra leggenda della velocità e rispetto preciso del limite a 55 miglia l'ora. Vedi Rambo, ma hai già visto Fellini, impari l'inglese ma non usi l'Italiano senza virgole e congiuntivi, come una spazzatura. Aderisci al mito, ma con ironia». Emulazione Testa non vede pericoli per l'identità dei ragazzi italiani sedotti dal grande supermarket mondiale dell'America, «basta pensare al rapporto culturale che esiste tra i giovani verdi italiani e il territorio del nostro Paese, segnato in modo profondo dalla storia: c'è un affetto speciale, unico». Il professor Alessandro Portelli, docente di angloamericano all'università di Roma, è stato da ragazzo vittima del morbo Usa: «Venivo dalla rigida Terni e sognavo la libertà sessuale per gli adolescenti che avevo visto al cinema con Scandalo al sole-, cosi prima della maturità se ne andò a studiare negli Stati Uniti, solo per finire processato dal tribunale degli studenti: aveva abbracciato una compagna di classe. «Ai miei studenti, dice. non passa nemmeno per la testa che gli Stati Uniti siano migliori dell'Italia, non li vivono come un modello, si sentono degli italiani con una grande passione per l'America». Ci può essere però un'influenza più sottile, il vero e grande messaggio americano sui teen ager italiani potrebbe «essere una lezione di stile», come dice Domenico Starnane, insegnante all'istituto per il turismo 'Boccardi- a Roma: «C'è un mito Usa per un gruppo di ragazzi più colti e c'è quello per 11 resto della classe. I primi adorano William Hurt protagonista del Bacio della donna ragno e aspettano con ansia Aliens con Sigourney Weaver, gli altri si accontentano di Rambo. Ma tutti e due i gruppi studiano ossessivamente il modo di muo¬ versi dei loro eroi, come entrano in un locale pubblico, come muovono il corpo, come se la cavano in una difficile situazione. Non gli diamo più valori, cercano almeno soluzioni di comportamento». Come gli studenti della periferia romana reagisce del resto lo scrittore austriaco Peter Handke, cresciuto nell'immaginario americano, osservando nel suo diario che lavare i piatti è meno triste se uno ricorda di averlo visto fare al cinema a Cary Grant. Con romanzi in parte sceneggiati in America e in parte in Italia, lo scrittore Andrea De Carlo ha contribuito a diffondere questo importexport di stili e modelli, ma a suo giudizio non si rischiano confusioni. «Per la nostra generazione l'identità italiana è per sempre assicurata da scuola e famiglia, il pericolo forse riguarda i bambini» dice guardando la figlia Malina di due anni. Il direttore dell'agenzia Associated Press in Italia, Dennis Redmont, osserva che i suoi due figli adolescenti americanoromani, si muovono in un «gergo giovanile internazionale diffuso dai video musicali e da telefilm come Miami Vice. Negli Stati Uniti i ragazzi sanno che i due detective vestono "all'italiana", qui credono che vestano "all'americana"». Nella confusione del dialetto d'immagine potrebbe però prevalere tra i bambini la cultura che di immagini ne produce di più. Dopo avere chiesto alla mamma, professionista italiana da poco trasferita a New York, se anche Indiana Jones «l'hanno fatto gli americani», il piccolo Stefano, di otto anni, ha concluso forse un po' sconsolato: «Ma allora tutte le cose belle le hanno inventate loro». Gianni Riotta ò dll l i li