In convento i tesori di Perkins di Francesco Vincitorio

QIn convento i tesori di Perkins ASSISI SVELA UNA PREZIOSA RACCOLTA QUASI IGNOTA QIn convento i tesori di Perkins Finalmente esposti, grazie al contributo dell'Alitalia, 57 dipinti del Trecento e Quattrocento italiano donati trent'anni fa dal grande collezionista amico di Berenson - Lorenzetti, Beato Angelico, uno smagliante Lorenzo Monaco restaurato e altri capolavori - Una straordinaria pagina nella storia del collezionismo - In bicicletta tra chiesette e badie, tra scoperte scientifiche e buoni affari ASSISI — Un'altra gemma è visibile nel Museo del Sacro Convento di S. Francesco. Infatti, accanto alle preesistenti Sale del Tesoro ricclie di memorie insigni del francescanesimo, in un salone trecentesco restaurato e allestito in modo ingegnoso dalla Soprintendenza, ha trovato finalmente posto la collesione Perkins. Donata circa trent'anni fa da questo marchand-amateur statunitense, essa comprende dipinti soprattutto del Trecento e del Quattrocento italiano. Fra essi diversi capolavori. Basti citare il quadro (peraltro, dopo il restauro, smagliante di colori) di Lorenzo Monaco. Oppure quelli di Bicci di Lorenzo, del Sassetta, di Giovanni di Paolo, del Maestro del Bambino Vispo o del ferrarese Giovanbattista Benvenuti detto l'Ortolano. Senza contare i dipinti attribuiti a maestri famosi: da Pietro Lorenzetti al Beato Angelico, da Masolino da Panicale a Signorelti. La loro esposizione permanente è stata resa possibile dal contributo dell'Alitalia, la quale ha voluto festeggiare in tal modo il suo quarantesimo anno di vita. E che si tratti di un avvenimento culturale di prim'ordine appare indubbio. Se non altro perché quasi nessuno conosceva questa raccolta. Prima della dona- arione era quasi inaccessibile, custodita (pare male) nelle due case del Perkins ad Assisi e a Lastra a Signa. Poi solamente una fugace mostra nel 1973. Soltanto adesso, dopo varie traversie, 57 pezzi sono a disposizione degli studiosi e del pubblico. Un «lieto fine*, come è sempre quello che si definisce «il passaggio da collezione privata a museo». L'ha sottolineato Federico Zeri. Proprio a questo specialista è stato affidato il catalogo scientifico, che verrà pubblicato tra pochi mesi dalla Casa editrice Umberto Allemandi. Avremo allora un prezioso ausilio per comprendere meglio il valore e il significato storico di questa collezione. Purtroppo i dipinti esposti sono soltanto una parte dell'originaria donazione. Per vicende giudixiarie circa tre dipinti sono ancora indisponibili, una ventina si trovano nella Pinacoteca di Perugia e una quindicina sono dispersi dal tempo della guerra, quando la casa di Lastra a Signa venne depredata. Fra essi una tavoletta del 400 senese, opera del Maestro dell'Osservanza, che Zeri più rimpiange. Ma pur cosi mutilata, la raccolta resta una delle più significative, d'origine privata, dei cosiddetti «primitivi* italiani. Una pagina sema dubbio di rilievo di quella storia del collezionismo, specie anglosassone, che tra la fine del secolo scorso e il se¬ condo conflitto mondiale, ebbe per teatro soprattutto il nostro Paese. Una storia assai interessante che non è stata finora scritta. A questo proposito vale forse la pena aggiungere qualcosa su Federico Mason Perkins, collezionista ma anche conoscitore o, meglio, come ho detto: marchandamateur. Un suo ritratto ce l'ha lasciato nei suoi diari Bernard Berenson, già suo protettore. Con penna velenosa (erano gli anni in cui, dopo un periodo d'amicizia, avevano litigato) lo descrive così: «Educato in Cina — era figlio del medico del consolato statunitense a Shangai — ha preso U modo 'di trattare tutti come gli inglesi tratta no i cinesi. Ieri mi ha detto di aver passato vari anni In Giappone. Poi è stato pianista di un certo rilievo a Vienna. L'incontrai la prima volta a Siena negli Anni 90 del secolo scorso. Era quasi un morto di fame». A questo punto si dilunga malignamente sulle sue scarse attitudini letterarie e sulle pessime condizioni in cui erano conservati i suoi quadri. In realtà bisogna tener conto che Perkins, al pari del Berenson, sia pure in tono minore, è un tipico prodotto di quello che è considerato «il più grande fenomeno col- lezionistico dei tempi moderni». Ossia l'avvento nel mercato dell'arte dei finanzieri e uomini d'affari statunitensi. I quali, appunto in quei decenni, per ragioni di prestigio ma anche speculative, crearono collezioni colossali. Poi, per fortuna, finite quasi tutte nei grandi musei americani. Magari, come quella di Henry Walters di Baltimora, senza neppure uscire dalle casse dove erano state stipate all'atto dell'acquisto. Un saccheggio, ben simboleggiato da quel Ratto d'Europa del Tiziano che nel 1890 entrò trionfalmente nella casa di Isabella Gardner a Boston. Proprio la città dove Perkins nacque e dove Berenson si formò. E dove ebbe origine la loro passione, nonché i loro traffici con l'arte italiana, specie con i «primitivi*. I quali, dopo essere stati per secoli negletti e disprezzati — fino all'Illuminismo li definivano quei fantozzi cosi mal fatti, distinti in campi d'oro che si vedono sparsi in molte tavole in tutta Italia e li bruciavano per recuperare l'oro — in quegli anni a cavallo tra 800 e 900 stavano invece conoscendo clamorose «fortune critiche* e vertiginosi rialzi. Sia il Berenson che il Perkins ne furono instancabili segugi. Girovagando, addirit¬ tura in bicicletta, per borghi e paesi della Toscana e dell'Umbria. Cercando e studiando chiesette e badie. Facendo spesso scoperte scientifiche rilevanti ma anche pronti a segnalare ai magnati d'oltre Oceano un «buon affare» o a comprare per la propria collezione. Come avrebbe detto il veneziano Marco Boschini, autore della celebre Carta del navegar pitoresco e pure lui devoto alle «ragioni di mercatura»; «I sta ale poste lesti; i fa pulito». Sono le dicotomie, le ambiguità del mercato dell'arte. Nei periodi di suo rigoglio, insieme con i guasti — cioè spoliazioni e frammentazioni: nella collezione di cui stiamo parlando il dipinto del Sassetta è uno dei tanti frammenti, sparsi nel mondo, del polittico che era nella chiesa di San Francesco a Borgo San Sepolcro — insieme, dicevo, ai danni, un gran fervore di studi e di ricerche. Culminate, per quanto riguarda il Perkins, nella scoperta del famoso ciclo di affreschi di Monticiano. I risultati di tali capillari investigazioni li pubblicò dapprima a Siena, città nella quale si era stabilito. Divenendo amico di molti storici dell'arte ma pure del pittore e falsario confesso, lo Joni. Solo in un secondo tempo si trasferi od Assisi, dove si convertì al cattolicesimo, avvicinandosi, via via, sempre di più ai frati del Sacro Convento. E' la ragione del dono fatto ad .Assisi, prima di morire. Ed è la via provvidenziale attraverso la quale, adesso, parte della sua collezione — la più rilevante — è a disposizione di tutti. Un avvenimento, come accennavo all'inizio, culturalmente importante, specie perché la raccolta documenta in modo egregio una particolare, storica forma di collezionismo. In definitiva un omaggio al luogo francescano per antonomasia, che si spera non sarà l'ultimo. Ricordo che tempo fa, qualcuno, esultando per i restauri degli affreschi della Basilica, disse che per San Francesco, che scrisse il Cantico delle creature, si era intonato il Cantico degli affreschi. Dato che quel «cantico* è ormai felicemente concluso sarebbe bello poter dire che, grazie all'Alitalia e ad altri eventuali mecenati, con il restauro di altri spazi dove poter esporre tutto il materiale riguardante le vicende del francescanesimo, è ora incominciato il Cantico del suo incomparabile museo. Francesco Vincitorio Gib Giambattista Benvenuti detto l'Ortolano: «San Sebastiano». A destra, Bicci di Lorenzo: «Madonna con Bambino»