«Sulla via di Managua» di Fabio Galvano

«Sulla via di Managua» «Sulla via di Managua» «E' un momento molto grave. La borghesia e forse anche gli Usa si sono accorti degli errori commessi, ma c'è il timore di una soluzione nicaraguegna» - «Gli amici desaparecidos, mio fratello ucciso, la clandestinità, il carcere Victoria: oggi piango solo per il Cile» DAL NOSTRO INVIATO STRASBURGO — Ulises Gomez è stato liberato dalle carceri di Pinochet meno di un mese fa, il 20 agosto. Ieri a Strasburgo il Parlamento europeo, che a luglio aveva incluso il suo nome in una lista di prigionieri politici dei quali chiedeva la liberazione, lo ha applaudito a lungo. Poco prima, nell'anniversario del «golpe» che aveva rovesciato Salvador Allende, Gomez aveva osservato un minuto di silenzio: il volto asciutto, di chi ha lottato e sofferto, e la sua espressione dura e risoluta, di chi ha sopportato i manganelli, si erano alterati cedendo alla commozione soltanto quando un gruppo di eurodeputati laboristi aveva letto i nomi dei quattrocento che sono ancora in carcere, e ai quali altri cento si sono affiancati da quando Pinochet ha introdotto — lunedi scorso — lo stato d'assedio. -Molti sono amici, molti non li vedrò più». Giornalista, poi nell'ufficio stampa e portavoce di Allende, Gomez — oggi ha 39 anni — era riuscito a sfuggire alla repressione del dopo-golpe. Ma il 5 ottobre 1979, dopo anni di clandestinità, gli agenti del Cni — la polizia segreta — lo avevano arrestato. Accusato di ribellione al governo e costituzione di banda armata (circolava con una pistola «per non fare la fine — dice — dì tanti desaparecidos»), è stato sette anni in prigione, continuamente spostato da un carcere all'altro: ne ha conosciuti dieci, quasi sempre nel «profondo Sud» del Cile, anche in quel Penai Disciplinarlo de Victoria tristemente famoso come centro di tortura. I carabineros gli hanno ucciso un fratello, una sorel la è dovuta fuggire in Francia, 11 padre — ex direttore di un giornale fiancheggiatore di Allende — è stato dieci anni in esilio in Germania e in Messico. La sua è una famiglia distrutta: l'altra sorella e la moglie Lucia, che presto lo raggiungerà, le ha potute vedere per pochi attimi prima che lo imbarcassero sull'aereo per Parigi; gli altri parenti ha potuto salutarli soltanto attraverso una vetrata, circondato da una cinquantina di poliziotti armati. «Conte se fossi un super terrorista», dice con amarezza. 'Vìva Pinochet», gridavano sorridenti alcune ragazze ritratte dalla tv durante una delle numerose dimostrazioni d'appoggio al dittatore. «Mobilita chi non può rifiutare», accusa Gomez: «Studenti, funzionari pubblici, soldati in borghese. Li fa portare in piazza a camionale, per puntellare il suo traballante regime». Non ha dubbi: Pinochet non è mai stato cosi debole. 'L'attentato — afferma — è stato soltanto un pretesto. In realtà gii da mesi il dittatore voleva introdurre lo stato d'assedio, che con il suo corollario di brutalità allarga si l'opposizione violenta contro di lui, ma lo fa sentire in diritto di assassinare e di reprimere in forma indiscriminata. Voleva farlo già il 2 e 3 luglio, quando ci fu una grande protesta nazionale, ma era stato il governo americano a impedirglielo». Quello odierno, a 13 anni dal golpe alla Moneda, è secondo Ulises Gomez «un momento molto grave» per il Cile. «La situazione politica — dice — tende a peggiorare; quella economica non dà segno di ripresa. La maggioranza della borghesia, che in passato aveva appoggiato Pinochet, ora si rende conto che egli può rappresentare un ostacolo alla soluzione dei problemi nazionali. Anche gli Usa, forse, si accorgono dell'errore commesso. Ci sono anche settori delle forze armate che, in un momento decisivo, potrebbero rifiutargli il proprio appoggio, come era accaduto in Argentina a Galtieri: qualcuno ritiene addirittura che l'imposizione dello stato d'assedio sia una manovra per riunificare l'esercito. Nessuna di queste forze, adesso discordi, trova tuttavia una formula alternativa accettabile e Pinochet ne approfitta per stringere con forza le redini». Un altro elemento che indirettamente puntella il dittatore è, secondo lui, il timore popolare che l'allontanamento di Pinochet possa creare una situazione come quella del Nicaragua. «La crisi economica — spiega — potrebbe spingere le fasce extraurbane della popolazione ad appoggiare la tendenza alla guerriglia». E allora si auspica un putsch incruento: «Da parte di una figura più moderata; di un dittatore dal volto nuovo, forse, come è accaduto ad Haiti». Della propria vicenda non parla volentieri. «Sono stato uno come tanti altri — dice — avevo resistito nella clandestinità per sei anni, scrivendo per pubblicazioni bandite dal regime. Poi un collaboratore di Pinochet mi denunciò. Quella sera, era il 5 ottobre del 79, gli agenti del Cni — la Central Nodonal de Informacion — erano in casa ad aspettarmi. Una ventina in tutto, armati fino ai denti». E il carcere? «Sempre duro. Soprattutto nei momenti di crisi come quella attuale, perché viene a man¬ care ogni controllo da parte della magistratura e tutto può accadere: arresti illegali, esecuzioni sommarie e, per chi è in carcere, qualsiasi brutalità. Per due mesi, nel periodo dello stato d'assedio in vigore fra il novembre '84 e il giugno '85, sono stato anche nel carcere di Victoria. Ne sono uscito grazie all'intervento di Amnesty International, ma non dimenticherò mal le botte che ho preso. Venivano con i manganelli, qualunque pretesto era buono per un pestaggio». Tre mesi prima del suo arresto aveva perso il fratello Juan Carlos. Era stata l'ultima delle disgrazie sofferte dalla sua famiglia. Il padre, direttore del quotidiano attendista Puro Chile (sono le prime parole dell'inno nazionale), era stato tre anni in carcere, subito dopo il golpe; dopo dieci anni di esilio, è tornato pochi mesi fa a Santiago. Sua sorella Cecilia, animatrice dell'associazione famigliari dei prigionieri politici, era stata costretta a riparare in Francia. E lo stesso Juan Carlos, studente, era stato in carcere due anni, fra il '75 e il '76, per la sua opposizione al regime. Fu quel precedente, secondo Ulises Gomez, a costargli la vita. 'Anche lui viveva in clandestinità. La sua auto fu fermata, quel giorno di luglio del 79, a un posto di blocco. Sapeva che, con i suoi precedenti, lo avrebbero ucciso, che il suo nome si sarebbe aggiunto alla lunga lista dei desaparecidos. Allora fuggì. Lo inseguirono, era armato, ci fu uno scontro a fuoco. Morirono in due, lui e un carabinero». Il suo volto non rivela commozione. Durezza si, forse anche odio. Fabio Galvano