Una vita contro l'impostura di Guido CeronettiGoffredo Parise

Una vita contro l'impostura LA MORTE DI PARISE, SCRITTORE DI GRANDE SENSIBILITÀ' POETICA E TESTIMONE DEL NOSTRO TEMPO Una vita contro l'impostura Fu in tutti i luoghi di guerra e repressione d'Asia, Africa e Sudamerica e ne tornò logorato da visioni di morte, di fame, di gentilezza calpestata - Già a quaranf anni si era accorto di un pesante, precoce invecchiamento, sotto la sferza di una inestinguibile passione civile e sociale - L'esperienza vietnamita - Negli ultimi tempi era approdato a una dura e lucida condizione di infelicità La sensazione di aver cominciato a morire, Goffredo Parise l'ebbe molto prima della malattia che in questi anni lo ha travagliato — senza distruggerne la capacità di pensare e di scrivere — esattamente quando, licenziando in volume le sue corrispondenze asiatiche, africane e sudamericane da luoghi di guerra e di repressione, accennò ad un proprio «pesante invecchiamento» avve¬ nuto tra il 1967 e il 1975, proprio a causa di quel suo lavoro di testimone attivissimo della violenza del tempo: «Al/ora non me ne rendevo conto, il processo degenerativo di tessuti, arterie e sangue, essendo in corso». (Guerrepolitiche, Einaudi 1976). Dunque, Parise, scrittore dei più innamorati della vita, cominciò a morire una ventina di anni fa, quando aveva meno di quarantanni (essendo nato nel 1929) per essersi inzuppato di visioni di morte, di impostura, di fame e, specialmente, di gentilezza calpestata, cosa che intossica e fa degenerare i tessuti più precipitosamente di ogni altra. Pigliano un senso specialmente acuto e drammatico, oggi, davanti alla conclusione che la Moira ha dato, infallibile, a quel lungo processo di precoce invecchiamento d'anima, parole come queste, da un campo biafrano di rifugiati : «La mente è come dissolta, Ut ragione perde di colpo la sua funzione dì strumento conoscitivo e associativo, soli strumenti di conoscenza rimangono i sensi che registrano indifferentemente i fenomeni». Perché uno scrittore vada sui disastri è spiegabilissimo: è per misurare la capacità della parola di controllarli; a Parise il tentativo, a prezzo di erosione intcriore e di ri¬ provazioni politiche, è riuscito bene, perché ne è tornato stringendo nel becco, col ricordo di tanta umanità offesa, molta verità e poesia. Ma tutto a poco a poco va trasformandosi in catene e sub-catene di disastri che la parola controlla come può, ispeziona sempre più malamente, né arriverà mai a scongiurare o a tamponare; fino a quando terremo, restando s'intende umani? A me basta viaggiare per l'Italia d'oggi, che non è Vietnam né Libano, per rincasare stordito e sazio, umiliato e offeso da qualcosa che pochi capiscono. Anche dall'Italia era afflitto, brutalmente, ora che non viaggiava più, Parise, vedendo «il povero e degenerato popolo italiano, da cui è stata spazzata via ogni forma di cultura e di economìa», proprio come è, non come lo adula la mafia degli ottimisti. Gli lasciò un'impronta ineffabile l'Asia orientale — la Cina visitata in pieno masochismo maoista, il Giappone perduto nella sua propria paranoia metaindustriale — che nel suo personalissimo venetismo lirico e policromo introdusse coi suoi annebbiati fiori di carta la conoscenza di una spietatezza senza misura —, ma l'Indocina, principalmente, dove il regime comunista di Hanoi gli si rivelò presto con la sua faccia implacabile, la sua nera volontà di potenza, seguitava ad ammaliarlo con le sue voci miste di terrore attuale e di tenerezza antica, in un sortilegio sentimentale molto simile a quello degli scomparsi residenti francesi. Ma sempre più macinatore è il tempo, l'analisi politica prevale sul ricordo sentimentale. Sono di grande interesse, i suoi articoli sul Corriere nelle ricorrenze e nei mai cessati sussulti dell'eterna guerra indocinese, articoli che di tante imposture fanno piazza pulita — a Guerre politiche necessarie appendici. In realtà, la vera letteratura è sovversiva, e Parise non ha che rispettato, con onorevole accanimento,. la vecchia regola, scrivere per buttare all'aria quello che è falso, che non è la vita e la morte. Ha tracciato anche un ritrattino di Ho-Chi-Minh come zietta omosessuale, in lungo pigiama marrone, gli occhi bistrati, che si sventaglia con movenze languide in una tribuna, come avrebbe potuto dipingerlo un De Pisis; e c'è 11 profumo di antica Asia e verità umana, ma certo, niente di più orripilante per quelli che urlando Ho-ho-ho-ho-chiminh a Roma spaccavano le saracinesche. Ormai si è fatto il silenzio e neppure si sa dove l'esile cadavere imbalsamato dello zio Ho sia stato impiramidato, mei\tre ogni tanto qualche barca di profughi vietnamiti si rovescia o approda col suo carico di disperazioni. Ma vale la pena ricordare quel che Parise scriveva nel 1977: «Chi oggi osa dire che il regime vietnamita semina dolori e morte per quella stupidaggine dell'internazionalismo socialista, che non de, che non si vede, se non sottoforma di gulag e di manicomi, anche oggi passa i suoi guai, travolto, qui in Occidente, da un'ottusa e melmosa alluvione di parole stampate da cut ne emerge sempre una: "reazionario"». Il reazionario era lui, il cronista poetico di quel disastro, sul quale non seppe mentire. Discepolo di altri illustri veneti contemporanei, come Piovene e Comisso, Parise non ha né il superiore distacco del primo né il dono (s'è ben visto) di perpetua freschezza del secondo. Anche quei suoi amici e maestri sono grandi viaggiatori, e hanno visto guerre e grandi guerre, ma questo non li ha invecchiati né fatti morire. Più emotivo, più sferzato dalla passione civile e sociale, Parise si è andato via via contagiando di malattia della storia, restando più drammaticamente contemporaneo e attuale, perché privo di sfogo brillante e compensativo nel passato e per un temperamento che si sarebbe detto, quando vigeva Ippocrate, atrabiliare. Così l'ustione che gli cadeva addosso gli restava, l'unguento non c'era, pronto. Mi pareva, leggendone gli ultimi scritti che strappava al male e nei pochi, brevi incontri che ebbi con lui, di vedere un monaco laico, ingrassato non dal cibo ma dalla pena, che si fosse immerso in una specie di volontaria — però rabbiosa, tra scatti continui d'indignazione — espiazione dei peccati degli altri. Si alterava con facilità, non sopportando più la menzogna, il luogo comune, la stupidità invasora. In casa aveva ricordi di De Pisis la cui vecchiaia Piovene definì «inverno di un uomo felice». Si sentiva — si amava anche — in Goffredo Parise, per il quale era autunno, un autunno freddo, un uomo, invece, non per vocazione ma per necessità, per eccesso di contatto umano, approdato a una dura e lucida condizione d'infelicità. Chi sa se per lui , la morte era un limite assoluto: conoscendone la sensibilità e l'apertura direi di no... Lasciandolo oggi sul varco, non voglio che il mio saluto gli appaia come un definitivo congedo. Guido Ceronetti Goffredo Parise, in una foto di qualche anno fa, alla finestra della sua casa di Ponte di Piave