Il fuoco che distrugge le Bastiglie di Aldo Rizzo

Il fuoco che distrugge le Bastiglie UNA STORIA E UN'ANALISI DEI PROTAGONISTI DELLE RIVOLUZIONI Il fuoco che distrugge le Bastiglie Una delle curiosità, non dico irrisolte, ma ricorrenti, della cultura moderna è il passaggio del termine «rivoluzione» dal suo originario significato astronomico (di moto rotatorio e regolare degli astri) a quello che poi gli si è dato nel linguaggio politico (di capovolgimento tendenzialmente irreversibile di un ordine sociale). Storicamente, la contraddizione mancò per molto tempo: le prime «rivoluzioni», come quella che ripristinò la monarchia inglese dopo la dittatura di Cromwell, nel XVII secolo, erano più esattamente «restaurazioni»; e la stessa rivoluzione francese, all'inizio, ebbe il senso, filosoficamente, di un recupero di un ordine e di una giustizia antichi, violati dal dispotismo monarchico. Si conviene che il passaggio avvenne il giorno della presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, quando il re Luigi XVI disse: oC'est une révolte!», e il duca de La RochefoucauldLiancourt Io corresse: «Non, Sire, c'est une revolution». Secondo Hannah Arendt, per la prima volta l'accento si era decisamente spostato «dalla legge immutabile di un moto rotatorio ciclico alla sua irresistibilità!), cioè al fatto di non essere governabile da una diversa volontà umana. Probabilmente si erano fusi i due significati, o le due suggestioni: l'aspirazione a un ordine ideale, eterno, e ia convinzione di poterlo recupe rare, o instaurare, attraverso una forza invincibile. Era nata comunque la rivoluzione, qua le oggi la concepiamo. Il saggio di Hannah Arendt è bellissimo, forse il più bello fra i vari scritti dall'ultimo dei filosofi classici della politica, secondo la definizione di Renzo Zorzi, e anche il più bello su questo tema (On Revolution, Sulla rivoluzione, tradotto in Italia da Comunità nel 1983) Ma è molto denso e «intrigante», oltre che amplissimo come ricerca storica, il volume di James H. Billington, eminente studioso americano, ora pubblicato dal Mulino (Con il fuoco nella mente. Le origini della fede rivoluzionaria). Con questa differenza: che la Arendt scrisse un libro tutto sulle idee, naturalmente senza trascurare le persone, mentre Billington ne ha scritto uno tutto sulle persone, naturalmente senza trascurare le idee. La differenza non è irrilevante. La scrittrice ebreo-tedescoamericana credeva, alle origini del suo pensiero, nella rivoluzione, come fonte di libertà, salvo ritrarsi, delusa, di fronte ai risultati concreti, storici, dei processi rivoluzionari, a partire da quello francese (nella chiave russoiana e democratico-radicale, che doveva influenzare, in senso antiliberale e antigarantista, anche Marx e Lenin). Invece Billington mostra di non credere in nulla, in nessun momento, nella rivoluzione, nelle rivoluzioni, e piuttosto si preoccupa di capire che cosa avessero e abbiano in comune gli uomini che vi si dedicarono e vi si dedicano. Hanno in comune, dice Billington, il «fuoco nella mente». Il fuoco come simbolo supremo: «Materia comune trasformata in modo straordinario, una grande intensità di calore che muta repentinamente la qualità della sostanza». Il fuoco «brucia, distrugge la vita, ma ne è anche il sostegno, come fonte dì luce, calore e — soprattutto — incanto». L'uomo «lavora con il fuoco come homo faber», ma ne è affascinato anche come homo ludens. Potere e piacere, o fantasia, immaginazione. «L'incendio è negli spirili e non sui tetti delle case», grida il personaggio dei Demoni di Dostoevskij, «l'opera letteraria più acuta mai scritta sul movimento rivoluzionario». Se il fuoco è un simbolo, o il simbolo (e Lenin chiamò Iskra, scintilla, il primo giornale della rivoluzione russa, poi diventato la burocratica Pravda), la sostanza è la trasposizione fideistica della religione alla politica. Come osserva Ernesto Galli della Loggia, nell'introduzione all'edizione italiana, ricordando Max Weber, il punto di riferimento è la perfezione divina, e il problema è tentare di adeguarvi l'imperfezione umana. Quando si affievolisce il richiamo della prima, non per questo si «laicizza» la seconda; al contrario, si tenta di superarla riproponendo al suo intemo l'istanza «divina». Allora la Rivoluzione diventa essa stessa la Rivelazione. Di nuovo, è la rivoluzione francese lo spartiacque tra il primo e il secondo modo d'intendere il cambiamento radicale della società, ed è tra il 1789 e il 1917 (l'Ottobre russo e rosso) che spazia essenzialmente l'analisi, o meglio il racconto, di Billington. Vi sono compresi personaggi d'ogni genere e nazionalità, da Buonarroti e Babeuf a Blanqui e Balanini, da Mazzini e Garibaldi a Marx e Engels, da Saint-Just e Robespierre a Proudhon e Lenin, uomini celebri o quasi sconosciuti, come quel Restif de la Bretonne, «feticista nottambulo» che inventò la parola «comunismo», sicché «l'etichetta rivoluzionaria che oggi presiede ai destini di più di un miliardo di persone nacque dall'immaginazione erotica di uno scrittore eccentri co». Da questo punto di vista, l'opera di Billington (quasi ottocento pagine) è parecchio più di un saggio, è una vera e propria enciclopedia della rivoluzione. Resta il problema se le rivoluzioni storiche, quelle che noi conosciamo, con le loro aspirazioni e le loro sconfitte, nel senso delle aspirazioni tradite, o impossibili da realizzare, siano poi riconducibili tutte e soltan to al «fuoco nella mente» dei rivoluzionari, secondo una visione tutto sommato romantica dei processi politici, che non a caso confonde o accomuna destra e sinistra, nel segno negativo («les e.xtrémes se touchent»), Billington precisa subito che l'attenzione sulla «cerchia elitaria» di intellettuali apocalittici e di giornalisti «oracolari» non significa indifferenza per la «sofferenza umana di massa» che «fa da sfondo». Ma aggiunge di non essere interessato a un'analisi «sociologica» del fenomeno rivoluzionario, premendogli piuttosto le motivazioni culturali e, al limite, individuali dei protagonisti. Anche Hannah Arendt mostrava distacco dalla questione sociale, che subordinava a quella della libertà personale, del resto senza alcuna contraddizione teorica, perché non c'è soluzione della questione sociale se non c'è un progresso di tutte le libertà individuali (a parte la sua contro-utopia tendenziale, alimentata dalla memoria-mito della «polis» greca). Ma era talmente consapevole dei problemi collettivi, e della loro urgenza, da temere che essi potessero diventare, alla fine, deviami rispetto alla soluzione più razionale: il senso d'irresi stibilità della rivoluzione astronomica poteva diventare, anzi era diventato, la prevalenza mistificante della «necessità» storica di fronte alla libertà politi ca. Un problema enorme, forse insolubile. Aldo Rizzo

Luoghi citati: Blanqui, Italia, Proudhon