A Salisburgo è «Capriccio» di Giorgio Pestelli

A Salisburgo è «Capriccio» Festival, finale in crescendo A Salisburgo è «Capriccio» SALISBURGO — Gran finale al Festival 1986. Per l'ultima settimana Salisburgo ha tirato fuori le unghie radunando nel giro di cinque giorni Karajan, Fischer-Dieskau, Abbado, Pollini, Ashkenazy, Buchbinder, Ozawa, Zimerman, i Wiener e i Berliner Philarmoniker: e spesso in congiunzione, o parziale sovrapposizione. Capriccio di Richard Strauss è alla sua seconda stagione nel Kleines Festspielhaus; ma l'opera, vero testamento del sommo compositore tedesco, è appena agli inizi di un suo rilancio moderno: nei prossimi anni, secondo voci correnti, approderà in vari teatri italiani, alla Scala con la regia di Luca Ronconi. Per uno storico della musica (di quei pochi che frequentano anche i teatri) le due ore e mezzo sema intervallo di Capriccio passano lievi e ristoratrici come l'affettuosa ricerca in una biblioteca familiare. Casti, Mozart, Salieri, Gluck, Rameau, Rossini e Donizetti, il rococò francese, il bel canto italiano: e poi le autocitazioni dal Cavaliere della rosa, dal prologo di Arianna a Nasso, le affinità con le altre opere dell'ultima prodigiosa fioritura dell'ottuagenario Strauss. il secondo Concerto per corno, il Concerto per oboe, le Metamorfosi, i Quattro ultimi canti, che tutti si affacciano e si intrecciano qui in un discorso di una fluidità multipla e continua: di Wagner, sono i Maestri cantori che trapelano qua e là, ma più per situazioni teatrali che per temi o idee musicali. Nei pressi di Parigi, nel 1775, in piena querelle fra Gluck e Piccinni, il poeta Olivier e il musicista Flamand disputano su una vecchia questione, se nell'opera il primo posto spetti alla musica o alle parole (Prima la musica poi le parole, era l'operina di Salieri e Casti da cui Stefan'Ztvetg aveva per il primo suggerito a Strauss il nucleo di un futuro lavoro); assistono il Direttore teatrale La Roche (forse una controfigura di Max Reinhardt), una contessa, giovane e vedova, suo fratello e l'attrice Clairon di cui sta innamorandosi. Alla fine, dovendo allestire uno spettacolo e non sapendo più che pesci pigliare, il conte ha l'idea di fare un'opera sulla discussione accademica intrattenuta fino a quel punto: è appena il caso di notare come una componente intellettuale alimenti con mano sovrana tutto il lavoro, come Strauss sia onnipresente, giocando di allusioni e di ambiguità, come riesca a far teatro di una conversazione, fissando lo sfuggire dell'attimo quotidiano come solo lui sapeva fare. Il compositore ne era ben consapevole. Tuttavia, gli dei propizi hanno ancora concesso a Strauss squarci ai rapimento lirico: nel Sonetto da Ronsard (quanto amore per la Francia circola in quest'opera) composto sul momento da Olivier e Flamand e infine intonato dalla contessa, nel grande monologo del Direttore vero inno al teatro, e più che mai nella scena finale con la contessa che non sa e non può scegliere fra Olivier e Flamand, cosi come l'opera non può scegliere fra poesia e musica, dovendosi adattare alla sintesi indissolubile dei due fraterni elementi, con le fatiche, le pene, le memorie che l'operazione comporta. Qui le suggestioni culturali si dissolvono ai raggi dell'ultimo sole straussiano; e il sipario cala sulla meravigliosa semplicità di due accordi die sono gli stessi die chiudono la Berceuse di Chopin. Direzione scrupolosa e partecipe di Horst Stein con l'eccelsa Filarmonica di Vienna. Le scene e i costumi di Andreas Reinhardt alternano con accortezza il rococò e gli Anni Quaranta del Novecento, offrendo al regista Johannes Schaaf buoni spunti per muovere gli interpreti nel gioco di specchi del teatro nel teatro. La compagnia di canto è bene assortita e senza tentennamenti: Anna Tomowa Sintow, che come Marescialla nel Cavaliere della rosa è un po' al di sotto della parte, qui con meno complessità psicologica #i fronte, riesce feltchsimì; anche nel timbro vocale che negli ultimi anni ha acquistato in sfumature interiori. Clairon, tutto pepe, è Trudeliese Schmidt (che i torinesi ricorderanno come impareggiabile Octavian nel Cavaliere della rosa): bene il quartetto maschile Wolfgang Schone, Eberhard Buchner, Franz Grundheber, Manfred Jungwirth e formidabili gli otto servitori che danno vita a una scena gustosissima' Giorgio Pestelli

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