Il tunnel di Flaiano

Il tunnel di Flaiano FOGLI DI BLOC-NOTES Il tunnel di Flaiano FORSE la cosa che sarebbe piaciuta meno a Ennio Flaiano, della mostra in suo onore organizzata dalla città di Locarno in coincidenza col festival cinematografico di agosto, sarebbe stato il titolo: Omaggio a Flaiano. Alieno com'era da ogni retorica, sempre scontento di se stesso, pronto all'autoflagellazione — condizione per flagellare il proprio paese — avrebbe preferito un titolo più dimesso, più ammiccante, comunque allusivo e indiretto. Eppure la mostra, curata da Gian Callo Bertelli e Pier Marco de Santi, è di una precisione e di una fedeltà assolute rispetto al modello. Non esclude nulla; comprende il collaboratore di Occidente (nel '}4) o del Popolo di Roma (nel '43); illustra con fotografie straordinarie, e documenti cotrispondenti, il combattente smagato e disincantato nella gueria di Etiopia del '36. La generazione di Flaiano, che aveva dodici anni al momento della marcia su Roma, ha vissuto intera l'esperienza fascista, per poi rifiutarla dal di dentro. «Complice» di quel gruppo di Oggi e di Omnibus, in cui l'afascismo grafico preparerà l'antifascismo politico e intellettuale. Col salto che da Longanesi porterà a Pannunzio. DECISIVO, nella vita di Flaiano, l'incontro con Pannunzio. Lo scrittore abruzzese — eppure così antidannunziano nel gusto e nel costume — era nato lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno di Mario Pannunzio, il 5 marzo 1910 (e morirà soltanto quattro anni più tardi). E a Pannunzio doveva tutto. L'invito al primissimo Oggi, una rivistina degli anni '31 o '32 di cui uscirono solo tre numeri, anticipazione dell'esperienza in rotocalco, prefigurattice dei settimanali postbellici (allotché quella testata, così distaccata e adiafora, cercò di riparare — senza riuscirci — l'odore di eresia di Omnium: ed eravamo già nel •39). E nel '49 l'esperienza, essenziale nella vita di Flaiano, del primo Mondo, quello di via Campo Marzio: «giornale semplice, artigianale, fatto da due redattori e una segretaria», come egli stesso testimonierà più tardi. Flaiano rideva di quella «contemporaneità» e anche Pannunzio si divertiva. «£' chiaro — diceva Pannunzio — che io sono nato un'ora prima e il posto di direttore è toccato a me». FLAIANO lasciò presto il Alando, almeno come redattore. Esattamente nel '52. Ma il suo cuore rimase sempre nel settimanale dell'Italia di minoranza: tanto di minoranza che non superò mai le quindicimila copie di vendita, pure esercitando una influenza intellettuale e politica grandissima. E quando il Mondo cessò le pubblicazioni, nel febbraio 1966 (il gruppo si era diviso, molte speranze si erano dileguate, nuove certezze si erano imposte, nella stessa area laica, al posto dei dubbi o degli interrogativi di una volta), Flaiano, che si trovava a New York — premuto e incalzato dagli esigenti «datori di lavoro» del cinematografo — confidava ad un amico: «Ora che il nostro settimanale è finito, capisco che anche una parte della mia vita è finita, la più importante». Malinconiche le riflessioni nella risposta di Pannunzio riprodotta nel catalogo della mostra: a proposito quante belle immagini di Rossi, di Carandini, di Cattani, di Spinelli, di La Malfa! «Sono uscito da un tunnel, dopo un viaggio sedentario di diciotto anni*. E incalzava: «Non ho potuto affacciarmi neanche al finestrino*. SCORGO nella mostra locarnesc una foto destinata a Einaudi insieme con Pannunzio e con chi scrive queste note (l'ha prestata, mi si dice, Mary, la vedova di Pannunzio). Sarà-fra il '52 e il '53. Una foto patetica: non riesco neanche a riconoscermi. Einaudi era un lettore accanito del Mondo, controllava e se necessario contestava tutto. Aveva un «debole» per Ernesto Rossi, il divulgatore massimo del suo pensiero economico. Vedendo quella foto mi bl torna in mente una nota di taccuino raccolta in uno dei libri postumi di Flaiano, La solitudine del satiro. Una cena al Quirinale, con Pannunzio e il piccolo staff del Mondo. Otto persone in tutto, e un immenso cameriere che vigilava quella scena domestica, da vecchia Italia, con un'aria fra sorpresa e irritata. Il capo dello Stato, arrivato alla frutta e scorgendo in un enorme vassoio pere grandissime, domanda ai suoi commensali se qualcuno ne divide metà con lui. Flaiano è pronto ad accettare l'offerta: «lo, presidente». E il gran maggiordomo, ancor più sbigottito e infastidito, gli posa davanti la metà del frutto come la testa di un San Giovanni decollato. Lo scrittore commenta: «G> minciava per l'Italia la repubblica delle pere indivise». CORRIAMO troppi rischi per la «filologia» posruma di Flaiano. Tranne Tempo di uccidere, il libro che gli fu commissionato da Longanesi, l'uomo non aveva mai licenziato una sua opera definitiva, «ne varietur». Flaiano era scrittore di infiniti pentimenti e ripensamenti, pur nello stile così tagliente, spontaneo e beffardo («io credo soltanto nella parola:... la parola ferisce, la parola convince, la parola placa»). Ogni suo manoscritto contiene varianti o parti aggiunte o parti tolte. Un po' come Cecchi, nella apparente distrazione, lavorava sempre su se stesso: e intorno a se stesso. E bisogna augurarsi che la sua opera trovi un migliore ordinamento dei molti e un po' casuali volumi editi da Rizzoli dopo la morte, senza un piano organico, con titoli di accatto (non suoi: talvolta fuorvianti), con allargamenti o integrazioni a ventaglio, rasentanti l'arbitrio. Incontro la vedova, Rosetta, a Locarno. Essa ha scelto Lugano come seconda patria e ha donato appunto a Lugano l'epistolaiio, la raccolta degli articoli e altro materiale prezioso del marito. Le chiedo l'autorizzazione a riunire in una plaquette, per la Nuova Antologia, tutti gli articoli che ho pubblicato, come suo direttore, nel Corriere della Sera fra il 1968 e il 1972. Non molti, strappati col forcipe. Accomunati dalla variante di un titolo famoso, Taccuino notturno (anziché il Diario notturno del Mondo che gli aveva attirato, a metà degli Anni Cinquanta, l'entusiastico consenso di Prczzolini: come ha rivelato la corrispondenza fra i due pubblicata da Diana Ruesch proprio nell'ultimo fascicolo di Nuova Antologia). In verità occorrevano dieci telegrammi o espressi per strappargli un articolo, mentre arrivavano dieci articoli senza un telegramma o un espresso da coloro di cui si faceva volentieri a meno. Forse questo è il migliore omaggio alla sua memoria. LA vedova di Flaiano ci ricorda il «divieto» del marito alla pubblicazione anche postuma di soggetti cinematografici appena abbozzati, non tradotti in realtà. «Ho dovuto fare eccezione — aggiunge la signora Rosetta — per i soggetti minacciati di usurpazione indebita da parte di concorrenti sleali, consentendone la pubblicazione presso Frassine/li; ma non intendo apportare ulteriori deroghe» (i soggetti sono a Lugano, i manoscritti a Pavia). Ripenso alle infinite amarezze e malinconie del soggettista cinematografico, cui pute è dedicata una esauriente sezione della mostra di Locarno: l'uomo aveva un fondo di innocenza, era incapace di difesa. Questo evocatore fantastico, che tanto ha dato al cinema italiano, dalla Dolce vita a Otto e mezzo, non ha mai goduto di una vera e propria larghezza di mezzi economici. I confronti con i suoi «imprenditori», a tutti i livelli, illuminano. . j //X 5 ITALIA: un paese \i \ j che conserva tutti i suoi escrementi». E' uno dei tanti giudizi «staffilanti» sull'Italia, dispersi nell'opera di Flaiano. Ma non è un giudizio che rispecchi integralmente l'uomo. Piccolo borghese meridionale, animato da un «patriottismo» che diventa, nel suo vigore, satira, denuncia, condanna. Un pellegrino itinerante, e sempre deluso, nel mondo, che sogna di tornare appena possibile «ai paesi affacciati su quei loro balconi naturali di colline», le colline del suo Abruzzo, «le più belle che io conosca». Giovanni Spadolini Fiinio Flaiano