Indiana Jones non vive in Brasile di Mimmo Candito

Indiana Jones non vive in Brasile UN POPOLO DISPERSO IN CERCA DELL'IDENTITÀ' NAZIONALE Indiana Jones non vive in Brasile Il politologo José Onofre: «Dovremmo imparare dall'eroe di Spielberg che per aver qualcosa bisogna sudare» - Un sociologo, Helio Jaguaribe: «In 15 anni bisogna sradicare la miseria dal 34 per cento della popolazione e la povertà da un altro 27 per cento. Se no, sarà la rivoluzione» - Il traguardo sembra modesto: come la Grecia - «Ma già i modelli Italia e Spagna erano troppo ardui» DAL NOSTRO INVIATO RIO DE JANEIRO — Il recente romanzo di Joào Ubaldo Ribeiro, Viva o povo brasilelro, ha avuto già sei rapide edizioni e due premi letterari. Anni fa il suo Sergente Getùlìo aveva segnato uno dei grandi strappi nella tormentata conquista d'una coscienza del reale, per questo Paese dove l'elusione della concretezza vale come un'epica del quotidiano. Ora protagonista non è più una figura individuale, metafora di un dramma comune, ma è lo stesso -popolo brasiliano» in tre secoli della sua storia, dal '647 ai nostri giorni, e l'architettura narrativa della saga serve soprattutto per trasmettere il vigore del simbolismo a un'identità collettiva tuttora indefinita. Alla pari di ogni altra nazione giovane, e ancor più per questa nazione che è dispersa e sterminata quanto un continente, il Brasile rincorre la sua storia lungo un itinerario dove mitologia e realtà si misurano in un viluppo inestricabile di tensioni. Il grosso volume di Ribeiro aggiunge ombre suggestive al mosaico difficile di una ricomposizione che qualche giorno fa Carlos Lessa mi descriveva con queste parole: «Noi siamo diventati uno Stato prima di essere nazione, e questo vuol dire che ancora non abbiamo la giusta consapevolezza di noi stessi». Come cavalieri Afa la rottura storica segnata dalla fine della dittatura militare e dall'arrivo della Nova Repùblica ha innescato in questa società fortemente segmentata un dinamismo di convergenze, inconsuete almeno dai tempi lontani di Getulio Vargas: «Siamo come i cavalieri che si ritrovano una domenica a Camelot, euforici per questa loro nobiltà, tutti simili nelle loro corazze diverse», dice José Onofre, e questa illusoria -euforia- comune ora è palpabile dovunque, nei palazzi metafisici di Brasilia ma ancìie nelle code ciarliere dei supermercati, tra i politici che scommettono sulle elezioni di novembre e in mezzo alla gente ette legge incerta i nuovi parametri della stabilizzazione economica ma controlla che nessun commerciante sgarri sulla tabella dei prezzi congelati. E se ne trova uno, chiama le guardie e attacca a cantare l'inno nazionale. «E* un'occasione da non perdere, dice convinto Helio Jaguaribe, un'opportunità da sfruttare in ogni sua potenzialità». Alto, una bella faccia aperta, i capelli ormai bianchi, Jaguaribe è il coordinatore di quella ricerca di base sulla quale il governo di Sarney sta costruendo il Brasile del Duemila. E anche qui il fascino della contraddizione appare irresistibile: tuttora incerta sulla propria identità collettiva mentre avidamente legge se stessa nelle pagine di Ribeiro, questa società si proietta comunque verso la fantascienza di un futuro possibile. Ma anche questa contraddizione è a suo modo una conferma, ripete e consolida l'immagine d'una storia nazionale ancora giovane, d'un Paese nel quale i processi dell'identificazione sociale sono tuttora fluidi: e perciò le tentazioni del mito valgono come sostituto aggregante per le carenze che s'avvertono nella realtà d'ogni giorno, sconfortante, delusa, dispersa. I rischi della mistificazione naturalmente sono alti. Dice il sociologo Flavio Koutzii: «Il nostro sistema finisce per essere basato sulla creazione continua di emozioni, e questo induce a pensare che l'emozione sia partecipazione. Il risultato è un misto di voyeurismo sociale e di adesione emotiva che mai costituiranno una collettività nazionale». Qualche sera fa un giovane sociologo magro e barbuto, Da Silva, mi dava dall'altra parte della Lagoa una diagnosi di conferma quando diceva che «il Brasile è una società ciclotimica, di grandi entusiasmi e di crolli disperati». Consapevoli in qualche modo di questa patologia nazionale, i suoi governanti paiono muoversi all'interno di un meccanismo immaginativo dove la caduta periodica degli entusiasmi viene riparata dall'invenzione di sempre nuove mete collettive, come una pubblicità costretta a inventarsi a ripetizione slogan di successo: dopo la Nova Repùblica venne infatti al momento giusto il Plano Tropical, e ora che questo dava segni di stanchezza ecco arrivare il Plano de Desenvolvimento con, sullo sfondo, il modello teorico ideato da Jaguaribe per il futuro. Le maniche della camicia arrotolate sopra il gomito, la cravatta lenta di chi soffre le costrizioni, nel suo piccolo ufficio dell'Ieps quasi in cima al Giardino botanico Jaguaribe mostra mappe e grafici: «La Nova Repùblica è soltanto la rappresentazione simbolica d'un cambiamento profondo avvenuto nel nostro Paese; il Brasile di 135 milioni di abitanti non è più una società di classe media ma è diventata una società di massa, urbanizzata al settanta per cento, con un'economia diversificata, con una complessità crescente di soggetti attivi nei processi sociali. C'è però un fossato abissale tra le grandi masse e gli strati superiori della popolazione, quel 10 per cento che controlla quasi i due terzi del reddito nazionale: una democrazia stabile non sarà possibile fin quando questo fossato non sarà stato ridotto». Verso il 2000 Jaguaribe e la sua équipe hanno lavorato per quattro mesi attorno a un'ipotesi sociopolitica: individuare gli strumenti, il metodo, i programmi e i tempi per far uscire il Brasile da questa sua drammatica dicotomia. Il risultato, consegnato ora al presidente Sarney per l'elaborazione delle politiche concrete del governo federale, segna due traguardi, «n primo è il tempo: 15 anni sono lo spazio realisticamente necessario per sradicare la miseria totale del 34 per cento della'popolazione e ridurre le forme più gravi di povertà di un altro 27 per cento di brasiliani». /; Duemila è dunque il traguardo affascinante e possibile di questa nuova società. La sua faccia e la sua storia riprenderanno i caratteri di un'esperienza molto diversa. «Abbiamo pensato a tre Paesi del Sud-Europa. Italia, Spagna e Grecia, che presentavano alcune similitudini col Brasile: un lungo periodo di dittatura, forti sperequazioni territoriali, un buono sviluppo industriale, processi intensi di crescita dopo la stabilizzazione democratica. Abbiamo dovuto scartare però quasi subito l'Italia, e poi anche la Spagna, perché il loro trend presentava ritmi realisticamente insostenibili per il Brasile, che è l'ottava potenza industriale ma ha indicatori sociali da Terzo Mondo. La nostra analisi si è concentrata sull'ultimo, la Grecia; alla fine abbiamo potuto verificare come sia possibile che il Brasile del Duemila diventi un Paese con un reddito pari a quello della Grecia». Una Grecia grande la cinquantesima parte del Brasile e con meno abitanti in tutto il suo territorio di quanti ne abbia la sola Rio de Janeiro non pare una meta capace di suscitare grandi emozioni. Però quando si abbandona l'illusoria confortevolezza di Copacabana o la magia segreta di Bahia e ci s'avventura nei vicoli delle favelas o nelle plaghe polverose del Nordeste. allora si ha subito la dimensione concreta, e impressionante, di un progetto di crescita che prevede di «elevare del 40 per cento la produzione di alimenti di consumo popolare». E anche la piccola modesta Grecia diventa un modello desiderabile. Jaguaribe chiede alla classe politica del suo Paese la forza di proporre un Patto Sociale attorno a un Piano pluriennale di sviluppo. «La sua base sarà il minimax che esprime il livello di coincidenza tra due valori: il massimo di sacrifici che i più ricchi sono disposti ad affrontare per avere la pace sociale con un miglioramento delle condizioni di vita dei più poveri: e il minimo di benefici che i più poveri sono disponibili a considerare come tetto per le loro rivendicazioni in cambio di una crescita delle loro condizioni di vita». Con un'analisi comparata dei modelli del Sud-Europa, l'equipe dell'Ieps ha trovato che il paradigma operativo del -Brasil 2000. sarà praticabile con investimenti sociali pari al 12,3 per cento del Pil; «e poiché ora siamo a una spesa del 10,5, bisogna fare un investimento aggiuntivo di appena il 2 per cento». Jaguaribe non è Superman, né il suo illuminismo è cieco. «Possiamo prefigurare per l'economia brasiliana una crescita costante del 6 per cento; questo significa che alla fine degli Anni Ottanta avremo superato il Canada, e alla soglia del 2000 avremo superato anche l'Italia e l'Inghilterra». Jaguaribe crede che «due anni, al massimo tre» .siane il limite che il sistema brasiliano possa sopportare senza cambiamenti. «Poi ci sarebbe una minaccia di rivoluzione, e nuovamente i generali». Lo dice amaro, con la convinzione certa dello scienziato che studia i materiali concreti della sua ricerca di laboratorio. E' anche vero che il Brasile è una realtà complessa, magicamente vitalistica, difficilmente riducibile alle tecniche di laboratorio; e che i fenomeni sociali hanno una capacità diabolica di sottrarsi alla prevedibilità degli schemi. Val la pena allora di rifarsi anche alle chiavi d'interpretazione d'un intellettuale che ama il gusto del paradosso, José Onofre: il quale suggerisce perfido due strumenti d'indagine, «la sindrome dei macachi di Tarzan e la variabile Indiana Jones». La sindrome dei macachi richiama le frustrazioni sconsolate di lord Greystoke. che tentava d'insegnare alle scimmie come remare e scopriva che esse dimenticavano con la stessa facilità con la quale imparavano. E quanto a Indiana Jones, Spielberg pare che lo abbia creato apposta per mostrare come nulla si ottenga sema dolore e sudore. «Se i miei connazionali non patiranno più la sindrome dei macachi di lord Greystoke e avranno tratto la giusta lezione dalle imprese del dottor Jones, allora forse questo Brasile nuovo sarà nato veramente». Onofre non sorride, è serio. I paradossi inventano sempre la realtà. Mimmo Candito Brasilia. Grattacieli sullo sfondo delle «favelas»: un'immagine emblematica dei contrasti della società