I partiti nel salotto buono di Andrea Manzella
I partiti nel salotto buono Perché scandalizzarsi dell'accordo di programma? I partiti nel salotto buono Fu la nostra Costituzione, per prima, nell'Europa del dopoguerra, nel 1947, a riconoscere i partili politici come associazioni capaci di «determinare la politica nazionale». Ma, in effetti, non inventammo nulla. Fummo solo i primi a rompere una ipocrisia giuridica, una finzione istituzionale: quella che escludeva i partiti dal diritto costituzionale scritto delle democrazie, dal «salotto buono» del sistema. Che i partiti fossero, in realtà, soggetti costituzionali a pieno titolo; che parlamenti e governi fossero istituzioni altrimenti incomprensibili senza la spiegazione del retrostante sistema dei partiti: ebbene, tutto questo era ben noto e studiato da lunghissimi anni. Addirittura, quando Bentham e Dumont vogliono spiegare alla Francia, dopo la Grande Rivoluzione, che cosa è il Parlamento britannico, la prima cosa che sottolineano è il ruolo svolto dai partiù nel funzionamento della Camera dei Comuni. E quando Mirkine-Guetzevich, nella fervida e sventurata temperie europea fra le due guerre, conia la classica espressione «parlamentarismo razionalizzato», afferma subito dopo, recisamente: «Il funzionamento del parlamentarismo è intimamente legato al problema della qualità costituzionale dei partiti politici». La Costituzione italiana prese dunque atto di questa vecchia realtà e instaurò un doppio circuito di decisione politica: quello partitico, quello parlamentare. L'uno legato all'altro in un sistema di prassi, consuetudini e convenzioni costituzionali che non contraddicono minimamente il diritto scritto, ma lo rendono appunto «vivibile». Esse cioè risolvono la convivenza, certo non facile, di due fonti di espressione della sovranità popolare: una, partecipativa-partitica, l'altra, elettora- le-parlamentare. Cose risapute e ormai entrate nel comune patrimonio della cultura istituzionale europea. Se qui si ricordano, è per misurare quanto lontana da esse e quanto costituzionalmente bizzarra sia stata la polemica in chiave anti-partitica che si è sviluppata sulle procedure di conclusione della crisi di governo. Stilando un accordo di programma per due consecutivi governi nell'arco temporale di venti mesi, i cinque partiti della maggioranza hanno stipulato un contratto di (fine) iegislatura. secondo un modello da tempo compreso nel patrimonio dei progetti di riforma istituzionale. Un patto di coalizione condizionato, come ogni accordo infrapartitico, alla verifica e all'accettazione istituzionale-parlamentare. Ma un accordo che inventa nuove logiche di soluzione per il problema della «governabilità dei governi di grande coalizione». Sotto questo aspetto, una crisi che e stata aperta, azzardando, al buio di un «indecifrabile» voto segreto, si è conclusa grazie a un fecondo soprassalto di fantasia istituzionale. Ora, ciascuno è libero di deprecare lo stesso fatto della conclusione di questo patto di conservazione del pentaparùto. Di respingerne politicamente, ideologicamente e perfino eticamente i fini, i contenuti e i protagonisti. Quel che non sembra possibile fare è l'invocazione della lesione di legittimità per presunta incompetenza dei partiti a disegnare questo scenario. Come se la recita finale non dovesse comunque spettare ad attori dotati di autonomia costituzionale, quali il Capo Andrea Manzella (Continua a pag. 2 in 4' colonna)
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