Ghetto e labirinto

Ghetto e labirinto NUOVO MUSEO EBRAICO A VENEZIA Ghetto e labirinto Nello scenario inquieto di muti e di finestre che chiude '.n curva, altissimo, gli spazi magici di Campo del Ghetto a Venezia, tra incastri di microabitazioni e ritmi di abbaini, pilastri malandati, portici scontrosi, emersioni incerte, affioramenti naturali più che opere umane; nel pieno corpo della Sinagoga Tedesca, segnata dagli archi accecati che fumigano nello scirocco; sopra o sotto, chissà, la mistctiosa Scuola Canton; in vista delle cupolette barocche della Sinagoga Italiana, soffiate su verso le nuvole — nel baricentro senza annodomini di tutto questo, eccoci di colpo tra sorprendenti porte automatiche nello sfavillante Musco della Comunità, appena restaurato e ingrandito. Due sale preziose, a un passo da non so quante altre sinagoghe nascoste o apparenti, nel compatto, denso, serrato eppure infinito ghetto per definizione, il primo ghetto del mondo; tutt'intorno botteghe di artigiani, rigatterie scorticate, resti di bagni rituali e di forni di azzime, notturni cancelli arrugginiti, co lonnine musicali: in una Venezia fitta e sgretolata, l'acqua del canale come anello di guardia, come lento nodo scorsoio, tra case troppo alte, scalette da cripta, intercapedi ni oscure. Le due nuove sale sono di sposte a L, a due diversi livel li: la geometria moltiplica spazi e sfavillio intorno a un centinaio di bellissimi pezzi, quas: tutti oggetti di culto. «Primo lotto» — precisa il progetto —, oweto «biglietto da visita» — sorridono i miei accompagna tori — d'una ristrutturazione più ampia, che presto restituirà in altre sale qui accanto l'intero arco terrestre e trascendente della città ebraica veneziana. * * Tra la folla, in non so quante lingue, si parla di diversi riti, strati, provenienze, famiglie, scuole, «nazioni»; ma i Rotoli della Legge e le Sucre iGoronc, i manti azzurri e gli arazzi d'ogni sfumatura, i codici superbi e gli amuleti in filigrana, le lampade del sabato e i materni scialli per la preghiera, parlano in realtà una sola lingua celeste: come se le diversità dei cammini, degli esìli, dei passi umani convenuti qui da mezzo mondo non aspettassero altro che di riconoscersi, e insieme di essere conosciuti — e magari amati — a Venezia. Così i singoli oggetti si esprimono in sintonia ma irra diano luce propria, diventano intraducibili essenze: continuerò per un pezzo a sentirli vibrare come segnali, e se verrete ve li porterete dietro anche voi, ognuno nella sua precisa frequenza. Tutta roba, infine, molto più splendida di quanto non avessi — chissà perché — pensato o immaginato nel vecchio ghetto. Qualcos'altro ti insegue mentre guardi, una sotterranea permanenza di immagini: ed è a straordinaria continuità esterno-interno in cui fino a qui mi sono trovato immerso e presto ci troveremo tutti se torneremo tra poco: queste sale appena aperte e quelle in restauro sono tratti di un percorso-labirinto che dalla grande piazza a conchiglia, dalle stradine-corridoio, salirà all'interno tra sinagoghe e case d'abitazione, scalette e scaloni, correrà tra passaggi, portici, porte socchiuse, rutto un ordito di anditi occulti e no, grandi e piccoli. Proviamo, per quel che si può fare oggi: su da un certo ingresso furtivo, per un'infilata di strette ripide scale: che prima si alzano dritte tra muri imbevuti di cucina e di medioevo, e poi si spandono, cercano da ogni parte, fino ai sacri «luoghi alti» dove forse si ode la Voce: e infatti ci depositano in un bosco, tra fitti pi lastri di pino, in quell'incastro tra cabala e neoclassico che qui si rivela la Sinagoga Italiana. Per un raccordo lungo la curva del canale si striscia via verso la Scuola Canton, sfiorando l'involucro prènsile del «Bimah»; poi giù verso il Museo nelle sue nuove sezioni, e infine allo splendore della Scuola Grande Tedesca. Sempre all'interno; secondo gli an tichi passaggi segreti dalle abitazioni alle sinagoghe, al laboratorio, al banco: un continuo su-e-giù percorreva la piccola città verticale, un flusso di cui immaginiamo, secondo i secoli o i giorni, l'intensità, i traumi, le angosce. In pieno intrico, ecco inse ritc le sale in cui siamo ripiombati, chissà per quali' altri passaggi: e che ora rivelano i' totale contrasto delle loro esatte strutture su rutto il poi veroso-sfatto-odoroso-grandioso-recondito appena percorso; dei nuovi spazi asettici, contro le scale addensate e i muri storti. Ci rendiamo conto che siamo intrappolari-impregnati dalla penombra che abbiamo attraversato: difficile lasciarla fuori, di là della porta scorre vole. Il nuovo museo è forse lo snodo artificiale del giro, e ogni museo e ogni snodo partecipano a un certo grado di artificialità; ma se i perni sono immersi come qui nel flusso che sale dai muri, può capitare il miracolo: un museo in qualche modo vivente, battuto dal vento dei percorsi affluenti — che è ciò che cerchiamo e vorremmo. E invece sentiamo così forte qui dentro l'urto da superare: ci dibattiamo fra i termini d'un divario estremo, pur in così poco spazio, in un «biglietto da visita». Le pietre lucenti delle nuove sale stentano ad avvolgerci, non fanno corpo coi sentieri rivisitati e sùbito sognati, deviano i percorsi ritrovati dentro di noi. *★ Ma occorre dare anche a loro, alle nuovissime presenze, quel che gli spetta: appaiono in forma di lastre grigio-azzurre, molto belle, dure, fredde, spigoloso-scivolosc, lucidissime, «straniere» ma cosparse di sciami di mica in continuo ri mando con lo sfavillio dcgl oggetti esposti: una coerente, indubbia creazione di spazi e di luci. Perfette dunque in sé e, per la loro funzione di pietre su cui passano molti piedi, ottimamente scelte. Né siamo contrari per definizione a un tal genere di divari; però cerchiamo un segno che nel profondo continui il contatto, una nota o un ritmo che ricordi e «accordi»; se no, uno dei due poli sfiora il casuale, resta il dubbio dell'e straneità. Temiamo sopratrutto per le prossime suture, per gli ormai vicini tratti di intervento: vor remmo esser certi che non si correrà il rischio di snaturare, in pieno ghetto veneziano, atmosfere e percorsi mentre stiamo ritrovando la casa comune, e il vero miracolo è che i vecchi muri siano ancora in piedi per tutti, ebrei e no. Attendiamo dunque i completamenti per un approccio più comprensivo; mentre ripercorriamo questa sera, chiusi musei e sinagoghe, le antiche tramepercorso: sentieri esterni, ora, strade-corridoi tra casa e casa, traballanti come in una vecchia pellicola. Rade voci salgono e si mescolano ai fluidi delle vene interne, agli intrichi lassù: per tornare serene sulla terra, nella grande piazza a conchiglia. «Non ci siamo mai trovati così bene come qui», scriveva un vecchio rabbino trecento anni fa. E anche noi, trecento anni dopo. Paolo Barbaro

Persone citate: Paolo Barbaro

Luoghi citati: Canton, Venezia